Italiani a Cannes/3 Non è facile affrontare La giovinezza. Non è facile se la palpebra cala dai primi minuti e non sai se è per l’insostenibile lentezza del girato o quel grappino che non aiuta a tenerla aperta
di Maurizio Zuccari
Non è facile affrontare La giovinezza. Non è facile se la palpebra cala dai primi minuti e non sai se è per l’insostenibile lentezza del girato o quel grappino che non aiuta a tenerla aperta, l’età che s’appressa a quella dei protagonisti del film. Non è facile perché non puoi tirare un frego sul più internazionale dei registi nazionali, tra i più capaci e premiati, dicendo che il suo ultimo lavoro è come quelle uova di cioccolata sciccose e sontuose, ma vuote e di poca sorpresa. Tutta apparenza e zero sostanza, gran bell’incarto ma cacao che lascia l’amaro in bocca. Mica facile dirlo, ma proviamoci. A due anni di distanza dall’Oscar per la Grande bellezza che ha raccolto più consensi all’estero che in patria ma un buon successo al botteghino, Paolo Sorrentino ripassa a Cannes con Youth, terzo degli italiani che puntano alla palma. Il più intimista dei suoi lavori, come dice lo stesso regista, è un’opera sulla vita, su come questa passa e poco resta, perso tra le nebbie della memoria e il fluire degli eventi che cambiano uomini e cose. Una parabola sul cambiamento visto con gli occhi di due anziani, a dispetto del titolo. Su come veda il futuro chi ne ha poco da spendere e s’approssima o affretta la fine, insomma. Un futuro che, come in una delle battute più riuscite del film, è un panorama dal cannocchiale del belvedere, vicino o no secondo l’età di chi l’osserva.
Per farlo Sorrentino raccoglie una cospicua banda di star anglosassoni – Michael Caine, Rachel Weisz, Harvey Keitel, Paul Dano e Jane Fonda – una Miss Universo appetibile come fosse vera e un Maradona più imbolsito dell’originale, e li mette a passare le acque all’hotel Schatzalp di Davos, in Svizzera, già celebrato da Thomas Mann nella Montagna incantata, tra mucche Frisone e paesaggi alpestri. Ospiti e vicende ruotano attorno a due vecchie glorie: un ex direttore d’orchestra, Fred Ballinger (Caine), e un regista che pretende d’essere ancora sulla breccia, Mick Boyle (Keitel). Il primo, da tempo ritiratosi dalle scene, piuttosto rintronato dalla perdita della moglie e seguito dalla partecipe figlia Leda (Weisz), riceve un invito a tenere un ultimo concerto nientemeno che da un emissario della regina Elisabetta, alla quale alla fine non saprà dire no. L’altro riceve un rifiuto dall’ennesima primadonna che ne comprometterà l’ultimo film, in corso di lavorazione, rimettendo in discussione l’intero suo operato.
Fin qui, la storia. Poi c’è la poesia. Quella che innegabilmente Sorrentino sa infilare nei suoi (capo)lavori. Poi c’è l’abilità nel mettere in scena personaggi (quasi) sempre credibili, siano outsider o vecchi mostri conclamati. Poi c’è il sogno. Quello di cui sono inzeppate le sue pellicole oniriche. Poi c’è lui che piace o dispiace, ma dal cui stile dolcecupo non si prescinde, nel panorama italiano coèvo. In Youth – che filmicamente si colloca a mezza via tra La grande bellezza e This must be the place, c’è tutto questo – ma manca il resto. La bellezza, pur criticato, prendeva a modello una Roma eterna ma sfatta per narrare con toni onirici ed efficacia neorealista la decadenza del Belpaese. The place, pur osannato, si trascinava sulle strade Usa per volare alto sui paesaggi della mente e della memoria. Con La giovinezza Sorrentino punta ancora più alto ma il tiro non sembra aver centrato l’obiettivo. Più simile a quello di certe pietre piatte lanciate a pelo d’acqua, pare andare lontano ma va a fondo, per quanto rimbalzi.
La giovinezza galleggia, forte di un impatto visivo al solito preminente su dialoghi ridotti all’osso (girati in inglese, come in The place) e boutade all’apparenza geniali – l’attore californiano che reifica Hitler, il balletto felliniano delle donnine compiacenti verso il regista, la miss sulla passerella sospesa in una piazza San Marco sommersa dall’acqua alta – ma mere vie di scampo in una narrazione che affonda anche senza andare a fondo. Dove l’esito finale appare volto a una ricerca estetizzante fine a sé stessa, incapace d’affondare il coltello nelle pieghe-piaghe del contemporaneo con toni elegiaci. Ché poi è la cifra stilistica del regista partenopeo, il quid delle varie tappe del suo percorso d’autore: la citata Bellezza, Il divo, Le conseguenze dell’amore, e via sorrentineggiando. Puntare tutto sull’estetica porta alla visione senza affabulazione, non c’è sorpresa dopo aver scartato il pacco, anche se all’utente globale forse piace il gusto. A Cannes e in casa la critica s’è divisa tra frizzi e lazzi, il pubblico pare apprezzare. Meglio il Sorrentino doc, senza grappino.