Dal 1990 al 1992 la Nazionale jugoslava viene coinvolta negli eventi storici e uccisa dal fax dell’Uefa, che la esilierà dal calcio fino al 1998
Di Carlo Perigli
(Segue da Parte 2)
Il 12 settembre 1990 la Jugoslavia inizia le qualificazioni agli Europei del 1992 battendo l’Irlanda del Nord per 2-0. Quello degli slavi del sud è un cammino implacabile, che porterà la Nazionale a passare agevolmente il girone, vincendo 7 delle 8 partite, con 24 gol realizzati e solamente 4 subiti. Oltre a Davor Suker, la Jugoslavia inizierà ad amare anche Darko Pancev, implacabile attaccante che vincerà la classifica marcatori con 10 gol. Numeri impressionanti, stracciati da una storia fatta di nazionalismi, guerre e interventismo occidentale, che spazzeranno via ogni aspetto della società jugoslava, calcio compreso.
Per quanto riguarda il nostro racconto invece, la parola “fine” potrebbe riportare già una prima data il 16 maggio 1991, giorno in cui la Jugoslavia batte le Isole Far Oer per 7-0. Vittoria a parte, si tratta dell’ultima volta in cui la rappresentativa dei 6 Stati, 5 nazioni, 4 culture, 3 religioni e 2 alfabeti scende in campo. Dal giorno dopo i croati lasceranno lo spogliatoio, tra giugno e dicembre diventeranno stranieri. Per il calcio jugoslavo, inteso come la rappresentazione sportiva della patria di tutti gli slavi del sud, inizia un rapido declino. Un primo segnale si ha nella finale di Coppa di Jugoslavia, giocata l’8 maggio a Belgrado tra Stella Rossa e Hajduk di Spalato, a pochi giorni da uno dei violenti scontri a fuoco che imperversano a Borovo Selo, a pochi chilometri da Vukovar. Pensando alle due sfidanti, torna in mente la stessa partita giocata nel 1980, quando uno stadio intero piangeva la morte del Maresciallo Tito. No, questa volta l’atmosfera è decisamente diversa, e a spiegare come in 11 anni tutto fosse cambiato c’è il tristemente famoso “spero che i nostri ragazzi uccidano la tua famiglia a Borovo” sussurrato da Stimac a Mihajlovic, serbo – all’epoca jugoslavo – nato a Vukovar, parte di quel complesso rompicapo di etnie chiamato Jugoslavia, che solo uno squilibrato cercherebbe di risolvere tracciando linee nette.
Per assurdo, alla fine del mese il calcio jugoslavo conosce il momento più alto della sua storia. A Bari la Stella Rossa batte l’Olympique Marsiglia e alza per la prima volta la Coppa Campioni. In piccol
Dall’altra parte dell’Adriatico invece, gli eventi ormai sono precipitati. Le squadre croate e slovene hanno lasciato la Prva Liga jugoslava, che nel 1992 smetterà di esistere per lasciare il passo al campionato della Repubblica Federale di Jugoslavia, alla quale partecipano le squadre serbe e montenegrine. La nazionale Jugoslavia esiste ancora, e a dispetto della politica vola in Danimarca per rappresentare tutte le nazionalità, croati esclusi. Ci sono sette giocatori serbi, sei montenegrini, due da Slovenia e Macedonia, uno dalla Bosnia. Vivono il ritiro tutti insieme, senza parlare di politica, nonostante la stampa non chieda altro, nonostante vengano ospitati in bungalow isolati e controllati da forze di polizia con unità cinofila al seguito, nonostante perfino i Primi Ministri delle selezioni avversarie non perdano occasione per delegittimare la loro presenza agli Europei.
Chiudiamo la terza ed ultima parte del racconto ricorrendo nuovamente alle parole di Dragan Stojkovic, che sintetizzano al meglio quanto il calcio fosse distante dalla politica, ma anche quanto quest’ultima si interessò anche ad un semplice pallone.
«È stato il giorno più brutto della mia vita, e la cosa peggiore è che non potevo spiegare ai giocatori il perché. Questo è sport, non politica, e le due cose non dovrebbero mai andare di pari passo. Stavano accadendo cose terribili nel mio Paese, delle quali mi vergogno profondamente. Ma quando vidi quei giocatori, vidi le loro espressioni distrutte quando gli diedi la notizia, volevo sapere perché la Uefa era arrivata a tal punto. Se avevano deciso di escluderci dalla competizione, perché non dircelo prima? Ci stavamo allenando, eravamo già in hotel in Svezia, e ora dovevamo andare a casa. Dovevamo tornare alla realtà. E ancora, nessuno mi spiegava il perchè».
Come uccisero il Brasile d’Europa (parte 3)
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