Cori, silenzi e marcette, Il 24 maggio dell’Italia che celebra la Grande guerra
di Maurizio Zuccari
Quattro cannonate a salve dal Gianicolo, tirate dagli artiglieri in uniforme storica, alle 15, hanno ricordato quelle sparate dal forte di Verena all’alba del 24 maggio, con cui l’Italia s’infilò nella macelleria della prima guerra mondiale. Alla stessa ora un minuto di silenzio, dalle reti nazionali ai campi di calcio, ha ricordato i morti italiani della Grande guerra. Oltre 650mila, altrettanti i civili e il doppio tra feriti e mutilati. Morti inutili? Morti per niente? Morti non nostri, taglia corto Arno Kompatscher, presidente della provincia di Bolzano che, come Trento, risponde sì al silenzio ma picche alla circolare del governo che impone di esporre il tricolore per la vittoria: i loro morti stavano dall’altra parte della trincea, ed è per questo che a Bolzano e in vari altri comuni altoatesini (o sudtirolesi, dipende da come si guarda la cartina) le bandiere resteranno a mezz’asta, in segno di lutto.
Con buona pace della ministra Pinotti e dell’Associazione Argine maestro, che con Marcello Veneziani e Giorgia Meloni ha trotterellato lungo l’argine del Piave per rinverdire i fasti della vittoria che ancora si crede mutilata. E mentre si sperdevano i fumi delle salve dal Gianicolo, un’altra marcia celebrava “il Piave di Roma”: a Ponte di Nona qualche centinaio di manifestanti inveiva contro il sindaco Marino, reo di non dare retta a Salvini mettendo in moto le ruspe per spianare i campi rom capitolini, al grido di “non passa lo straniero” e sventolìo di tricolori dalle auto. Sempre nella capitale, mentre su e giù per lo stivale mortaretti e fanfare suonavano a festa attorno ai monumenti ai caduti che infiocchettano lo stivale, ripuliti grazie agli oltre 32 milioni di euro stanziati per l’occasione, il presidente Matterella è salito al Vittoriano per deporre la doverosa corona al milite ignoto. Una salma che dovette essere spedita a Roma escludendo i 4/5 del fronte alpino, per non correre il rischio d’incappare in qualche soldato ammazzato dal piombo italiano. Non tanto il migliaio di fucilati, quanto i decimati nelle brigate stanche di “spallate” buone solo a fare carne da macello di chi veniva gettato all’assalto con la tattica del pallottoliere di Cadorna.
Eccolo, il senso più vuoto della tronfia retorica che neppure cent’anni dopo quella carneficina riesce a far sentire tutti figli di un solo paese, ma risalire gli argini e suonare i pifferi di un conflitto sostanzialmente ignoto e malcompreso ai più. Persino il grande schermo ha dedicato a esso solo tre lavori: La grande guerra di Monicelli, Uomini contro di Rosi e, da ultimo, Torneranno i prati di Olmi. A riprova di come l’immaginario collettivo del Belpaese faccia fatica a rimasticare questa storia patria, il cui ricordo è vivo solo nei luoghi in cui fu combattuta. Nonostante la bibliografia sterminata che la racconta, ancora impegnata a mostrare che fu, davvero, guerra di popolo, utile (giusta?) e risorgimentale. Un pieno di retorica e un vuoto di memoria che il grande pubblico potrà, chissà, colmare stasera, in prima serata sulla rete ammiraglia della Rai, davanti al docufilm Fango e Gloria (con la G rigorosamente maiuscola, a porre l’accento più sulla gloria che sul fango). E via con le marcette, cori e silenzi da Roma a Bolzano. Tanto chi lo sa che il forte di Verzena, dopo una settimana di fuoco spavaldo, fu ridotto al silenzio dagli austriaci?