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Omicidio Bifolco, a processo con rito abbreviato

Processo e sentenza il 23 luglio per il carabiniere che uccise il diciassettenne Bifolco durante un inseguimento nel quartiere Traiano di Napoli

di Ercole Olmi

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Processo con rito abbreviato per il carabiniere che, nella notte tra il 4 e il 5 settembre 2014, uccise il 17enne Davide Bifolco al termine di un inseguimento nel Rione Traiano a Napoli. Il giudizio abbreviato è stato richiesto dal legale del carabiniere, avvocato Salvatore Pane, nel corso dell’udienza preliminare svolta questa mattina. Il processo con rito abbreviato si svolgerà il prossimo 23 luglio, giorno in cui è prevista anche la sentenza. Il carabiniere Giovanni Macchiarolo è accusato di omicidio colposo aggravato dall’aver commesso il fatto con violazione dei doveri inerenti a un pubblico servizio. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Napoli, il militare, in servizio presso il nucleo radiomobile del Comando provinciale dei Carabinieri di Napoli, era impegnato nella ricerca di Arturo Equabile, all’epoca latitante e poi arrestato il 18 settembre a Casoria, nel Napoletano. Il colpo sarebbe stato esploso inavvertitamente dal carabiniere e raggiunse il giovane al petto, uccidendolo.

Delusi per l’esito dell’udienza i familiari del ragazzo ucciso, dal momento che con questo tipo di processo l’eventuale condanna dell’imputato ha possibilità di essere ridotta di un terzo – e probabilmente sospesa – rispetto alla pena stabilita dal giudice. Una pena che comunque, essendo stata definita l’uccisione di Davide un “omicidio colposo”, potrebbe prevedere al massimo una reclusione tra i cinque e i sette anni, considerando l’eventuale aggravante per aver commesso il fatto durante il servizio. Fuori dal Palazzo di giustizia una cinquantina di persone tra amici e parenti di Davide e membri dell’associazione intitolata all’ennesima vittima di malapolizia.

Secondo il pm il carabiniere sparò per «imprudenza, negligenza, imperizia nonché inosservanza di regolamenti e discipline» come l’obbligo «di sicura padronanza e di adeguata capacità di impiego delle armi in dotazione». Era il 5 settembre del 2014, la gazzella della Benemerita si aggirava al Rione Traiano a caccia di un latitante, ricercato per essere evaso dai domiciliari, e i carabinieri si sarebbero fatti persuasi che il “loro” uomo fosse a bordo dello scooter che, secondo il racconto degli amici della vittima – accolto dalla descrizione del pm – fu speronato dalla vettura dell’Arma. Lo sdegno in città e nel resto del paese fu notevole. Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, s’è immediatamente mobilitata con i movimenti napoletani a fianco della famiglia Bifolco. Le redazioni locali di Repubblica e Corriere della Sera si sono date molto da fare per provare a screditare l’attivismo dei movimenti contro l’ennesimo caso di “malapolizia”, spulciando le pagine Facebook a caccia dei “segretissimi ” legami tra disoccupati, movimenti e una nuova categoria sociale. “gli amici di Davide”.

Molti i lati oscuri di questa vicenda che solo un processo potrebbe provare a chiarire, a cominciare dalla misteriosa sparizione del bossolo dalla scena del delitto, dal mancato tracciato delle sagomature sulla stessa, e l’irruzione (documentata da un video) di uno dei due carabinieri, arma alla mano in una sala giochi a pochi metri dall’omicidio. Le indagini, come non smette mai di segnalare il legale dei Bifolco, Fabio Anselmo, sono state affidate allo stesso corpo di cui fa parte l’imputato.

Il ragazzo giunse già cadavere in ospedale, alle tre meno un quarto del 5 settembre.  Il rapporto stilato quella notte è rintracciabile in rete. Tutto sarebbe iniziato intorno alle 22.30, quando il latitante Arturo Equabile viene segnalato dalla centrale “in sella a un Honda Sh”. La gazzella del Radiomobile continua a cercarlo, fino alle 2.30. «All’altezza del viale Traiano – si legge – vediamo quel ciclomotore con tre persone a bordo. Li inseguiamo, arriviamo fino al senso rotatorio di via Cinthia e quando loro svoltano, io riconosco seduto proprio in mezzo il soggetto: Equabile». Il carabiniere dice anche di aver scorto «uno scintillìo, che proviene da qualcosa di metallico: il soggetto ce l’ha nella sinistra». «I ragazzi cercano di superare il cordolo dello spartitraffico, noi gli stiamo dietro, quando lo scooter perde velocità e si arena noi ormai non riusciamo a fermarci e finiamo per toccarli e farli cadere». Poi il “latitante” che scappa, Davide è a terra, l’altro ragazzo cerca di fuggire. «Esco dall’auto con la pistola nella destra e il colpo in canna per difendermi. A quel punto, con la mano sinistra trattenevo con la mano sinistra il soggetto che cercava di divincolarsi e con la destra tenevo l’arma. A quel punto sono inciampato sul marciapiede e stando per cadere, ho inavvertitamente fatto esplodere un colpo. Appena mi sono accorto dell’esplosione ho visto l’altro ragazzo che tremava, cadere».

L’inciampo è la più antica delle versioni ufficiali per coprire e insabbiare un omicidio commesso da qualcuno che indossa una divisa.

Equabile è un pesce piccolo, uno che non avrebbe mai sparato a nessuno. Aveva senso inseguirlo con il colpo in canna? E perché poi insistere per ricoverare in ospedale un ragazzo morto sul colpo? E perché l’irruzione nella sala scommesse i cui avventori s’erano precipitati a vedere la scena e sono stati fatti rientrare con le mani alzate. Non sfugge a nessuno il valore simbolico sul processo per l’omicidio di un diciassettenne incensurato ma residente in un quartiere sottoproletario come il Rione Traiano di Napoli. Lo Stato contro chi si mette in mezzo alle sue pratiche di polizia e tenta di illuminare il cono d’ombra dove due poteri si fronteggiano ogni giorno, spesso con ampie zone di collusione, e con l’ambiguità tipica dei poteri. Stritolati tra queste forze (ed esposti ai commenti infami sui social network che descrivono Davide come una vittima “indegna”) vivono decine di migliaia di persone nei quartieri ghetto di metropoli come Napoli. Infatti «il caso potrebbe essere molto semplice sul versante giudiziario, quanto complicato sotto il profilo sociale e ambientale», ebbe a dire l’avvocato Fabio Anselmo, legale ferrarese della famiglia Bifolco e che ha assistito in questi anni le famiglie di persone morte o ferite ad opera di forze dell’ordine, da Aldrovandi a Magherini, passando per Cucchi, Uva, Ferrulli, Rasman, Morneghini, Narducci, Diaz, Tura.

Vale la pena ricordare una sentenza di Cassazione per cui il guidatore che non si ferma all’alt intimato da un pubblico ufficiale non commette reato: scatta la multa per violazione al codice della strada, ma non la condanna penale per «inosservanza ai provvedimenti dell’autorità».

Nel corso del 2014, come ha scritto la rivista Altraeconomia, sono almeno un centinaio gli agenti indagati, rinviati a giudizio o condannati per reati, dal furto aggravato allo stupro. Secondo Donatella Della Porta, docente di Sociologia presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, invece, “la parte di fenomeno che diventa visibile è molto minore rispetto a quella reale”, data la strutturale “omertà di corpo” che caratterizza i comparti interessati. “Un altro fattore da tenere in considerazione – prosegue Della Porta – è la difficoltà incontrata da quelle persone che faticano a denunciare arbitrii a loro danno. Sia questo il delinquente, la prostituta o il migrante. Soggetti cioè considerati poco affidabili”. Per le sigle sindacali dei corpi interessati, interpellate da Ae, gli episodi sarebbero sporadici e fin troppo sottolineati dai media. “Il numero di casi che vedono coinvolti gli operatori di polizia in reati che siano scollegati all’attività di servizio è talmente limitato da ritenersi un fatto fisiologico in un’organizzazione così grande e complessa”, secondo il leader del Siulp, il maggiore sindacato del comparto. Così “fisiologico”, sottolinea la rivista, da non richiedere una misurazione indipendente, trasparente e consultabile.

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