Quando il calcio diventa lo strumento per realizzare un sogno, a chi importa se Cantona nell’Inter non ci ha mai giocato?
Di Carlo Perigli
Questa è una storia che parla a tutti quelli che, nei primi anni ’90, erano contemporaneamente bambini e appassionati di calcio, per i quali sognare l’arrivo di un campione nella propria squadra non era un buon motivo per essere presi in giro. Ma, allo stesso modo, si rivolge a chi nel pallone ha sempre visto qualcosa in più di 22 miliardari che rincorrono un pezzo di cuoio. Questa è la storia di Cantona all’Inter.
Erano i primi mesi del 1995, e il sottoscritto, all’epoca alle elementari, ogni mattina prendeva il pulmino della scuola. Alla guida c’era Ulderico, un anziano omone burbero quanto interista, che con il passare del tempo mi aveva preso in simpatia. Grazie alla comune fede sportiva, mi permetteva di sedermi affianco a lui e di sfogliare la sua Gazzetta, della quale era altrimenti gelosissimo, costantemente presente sul cruscotto.
Con il passare delle settimane eravamo diventati un team perfetto; lui guidava, io gli leggevo le notizie e insieme affrontavamo questa giornaliera full immersion nel mondo nerazzurro. Così, all’interno del tragitto casa-scuola si inserivano una serie sconfinata di altri viaggi, con la Gazzetta che, per quel brutto vizio dei giornalisti sportivi, ogni giorno accostava all’Inter un giocatore diverso. Ne cambiavano tanti, giorno dopo giorno, finché uno non iniziò ad essere una presenza costante in prima pagina: Eric Cantona, che per quanto ne sapevo io era quel fenomeno che il Manchester United non mi vendeva mai su Championship Manager 93/94. E poi era quello che aveva dato un calcio volante ad un tifoso. Si lo so, non è un gesto che un bambino dovrebbe apprezzare, ma quell’incontro perfetto tra Championship Manager e Street Fighter non poteva non renderlo ai miei occhi un idolo incontrastato.
“Forse non rinnova il contratto con il Manchester e può darsi che se viene in Italia la squalifica non gli vale”, mi spiegava Ulderico, mentre mi raccontava, con l’espressione sognante di chi dimostra 50 anni in meno di quanti ne ha veramente, le gesta di quel giocatore fantastico. L’avremmo preso, ne ero sicuro. E poi c’era quella foto sulla Gazzetta, che ancora oggi ricordo nitidamente: Cantona che mette le valigie nel portabagagli, con la didascalia pronta a confermare; “Cantona fa le valigie, destinazione Inter”. Quanto ci vuole da Manchester a Milano? In serata lo annunceranno al tg, sta arrivando. Ma poi la squalifica gliela levano? Chi se ne frega, aspettiamo pure l’anno prossimo!
Finchè non arriva quel giorno, il 29 aprile 1995. È una data speciale, o perlomeno ne rimango convinto finchè non arriva il pulmino. Salgo su, Ulderico è al suo posto, la Gazzetta anche, e ora ci sono anche io, manca solo Eric. Sfoglio la “rosea” in maniera frenetica, finchè non rimango senza parole. L’articolo c’è, Cantona pure, ma qui dice che ha rinnovato con il Manchester. Niente Inter, e tanti saluti a Championship Manager e Street Fighter. Disorientato mi giro verso Ulderico, ma il suo sguardo, quello di un nonno che mai avrebbe voluto darmi quel dispiacere, vale più di mille parole. Cantona non avrebbe mai giocato all’Inter, ma, in fin dei conti, non era più così importante. Quella storia, quel sogno, quella insignificante voce di mercato, aveva consegnato ad entrambi qualcosa che mancava da troppo tempo. E di fronte a certi regali, credetemi, non c’è campione che tenga.
Cantona all’Inter, un sogno da quarta elementare
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Ma perchè parlare di calcio e dei ricordi di un bambino facendo passare il tutto sotto la sezione “cultura”. Anche quando non c’era l’idolatria sfegatata per i giovani miliardari stronzi c’era sempre e comunque il disprezzo per chi fa parte di un mondo omofobo, sessista e spessissimo razzista e fascista. E’ cultura dunque? Teresa
Gentile Teresa,
Su un punto siamo d’accordo: il calcio professionistico, come la società in generale, è invaso da omofobi, sessisti, razzisti e fascisti (più o meno consapevoli e/o dichiarati). Ma questo è sufficiente a rendere il calcio uno sport da boicottare? Secondo me no. In parte perchè è lo sport più popolare (non nel senso di famoso, ovviamente) di tutti (può essere giocato a costo zero e praticamente ovunque) e viene praticato da milioni di bambini tra quartieri, borgate, barrios e favelas, evitandogli a volte (non fa miracoli) situazioni quantomeno sgradevoli. Certo, a volte il prezzo da pagare è che sognino di diventare come quegli stronzi miliardari, ma è una riduzione del danno che possiamo accettare. Vede, iniziando questa rubrica per Popoff sto provando a rivolgermi a chi il calcio lo ha vissuto o lo vive in maniera diversa, saltando da un genuino romanticismo (come l’articolo di cui sopra) al politico (come la fine della Jugoslavia), forse perchè troppo presto orfano di Osvaldo Soriano (di cui mi considero solamente un lettore, ci mancherebbe pure) che il calcio lo amò alla follia, ma di fascista, bè, si figuri 😉