La febbre per i grandi centri commerciali sta svanendo. Il prezzo, tanto per cambiare, lo pagano i lavoratori, ma si prospetta un modello di consumo territoriale e più attento al risparmio
Di Marco Vulcano
È proprio il caso di dirlo: benvenuto passato. La passione smodata per gli shopping mall statunitensi, i grandi centri commerciali dove trovare tutto per tutti, sempre e a qualunque orario, scorrazzando per i corridoi degli immensi casermoni che hanno costituito (e in buona parte continuano a costituire) una buona fetta percentuale del suolo cementificato a ritmi da record negli ultimi tre decenni, sta cedendo il passo. Al loro posto ritornano i piccoli supermercati di quartiere.
In Italia, stando ai dati diffusi dal Sole 24 Ore, negli ultimi anni sono venuti meno nove grandi ipermercati e 25 grandi supermarket, con i colossi internazionali della grande distribuzione che registrano continue perdite mentre si assiste a un boom di discount e supermercati locali.
Il quadro della situazione, descritto da Federdistribuzione, è allarmante. La stragrande maggioranza dei grandi gruppi imprenditoriali del settore stanno infatti chiudendo i propri punti vendita, o li hanno già chiusi, facendo ricadere gli enormi costi sociali sulle spalle dei dipendenti, tra esuberi, mancati rinnovi contrattuali o licenziamenti finalizzati a nuove assunzioni peggiorative. Un regalo, quest’ultimo, permesso dal Job’s Act firmato Renzi.
Auchan negli ultimi quattro anni ha perso circa 300 milioni di euro e ha già annunciato, nello scorso aprile, 1500 esuberi su un totale di 12.00 lavoratori. Carrefour ha ridotto i propri dipendenti di circa 4000 unità negli ultimi otto anni, i tedeschi di Billa e i francesi di Fnac e Darty hanno abbandonato l’Italia, il gruppo Lombardini è uscito dal commercio mentre Mediaworld ha da poco annunciato 700 esuberi su un totale di 6458 dipendenti, pur avendo in programma tre nuove aperture, con i lavoratori che rischiano di perdere un lavoro a tempo indeterminato per trovarne uno a tutele (de)crescenti in uno dei nuovi negozi della stessa catena.
Trony e Unieuro hanno entrambi chiuso diversi punti vendita e fatto ricorso ai contratti di solidarietà. Stesso discorso per Mercatone Uno, al momento in amministrazione controllata, e La Rinascente, mentre il gruppo Limoni-Gardenia ha avviato la procedura di mobilità per 150 dipendenti dichiarando ulteriori 350 esuberi.
«Negli ultimi tre anni – spiega il presidente di Federdistribuzione, Giovanni Cobolli Gigli – i consumi delle famiglie sono scesi provocando un calo degli acquisti di circa il 3%. Ciò ha spinto le aziende a tutelare il potere d’acquisto dei consumatori con attività di incentivazioni e offerte, ma così facendo la redditività è diminuita e siamo passati da un saldo positivo di 1,6 punti percentuali, nel 2006, a un saldo negativo dello 0,1% del 2013, con gli investimenti praticamente dimezzati».
Non si sono però ridotte le spese, anzi. Mentre le redditività si assottigliano, i costi di gestione richiesti dai grandi agglomerati di cemento votati al commercio sono lievitati, poiché gli spazi invecchiano e hanno bisogno di manutenzioni sempre più frequenti. Basti pensare che su 4,5 miliardi di investimenti nel settore, circa 2,5 riguardano lavori di ristrutturazione.
Il problema non riguarda però solo l’Italia ed è più complesso di quanto sembri.
La caratteristica di avere una domanda interna depressa e un conseguente calo degli acquisti, con i consumatori che evitano i grandi punti vendita prediligendo piccoli acquisti mirati, si registra un po’ ovunque. In Inghilterra, il gruppo di distribuzione Tesco ha chiuso il bilancio con una perdita record di 6,4 miliardi di sterline, la più grande del settore e una tra le peggiori nella storia del marchio, chiudendo 43 filiali, mentre per la prima volta il sistema dei grandi centri commerciali è in crisi anche negli USA, dove si prevede la chiusura di circa 60 shopping mall mentre una decina già mancano all’appello.
Sembrerebbe profilarsi all’orizzonte un ritorno al passato, con la ricomparsa sulla scena dei supermercati locali, radicati sul territorio, e il lento declino delle astronavi commerciali che hanno accompagnato l’ascesa consumistica degli ultimi decenni.
A me questi dati non tornano e per me ipermercati e centri commerciali stanno aumentando, ma del resto se si legge il sole 24 il giornale dei figli di una baldracca, non è che si possono scrivere cose sensate. Mo m’avete rotto i cojoni e non vi leggerò più, e non siete più autorizzati a spiarmi e a seguire le pagine che guardo e quello che scrivo un pò qua e un pò la, e se la legge ve lo permette è proprio perchè viviamo in un paese dove nel 2015 ancora ci sono giornali come il sole 24 ore, il corriere e repubblica.
zucche vuote che non sanno pensare in maniera autonoma e devono guardare quello che pensano gli altri.