I luoghi delle città da altre prospettive. Intercettare la contro-narrazione delle città dalle storie altre che i luoghi testimoniano? Intervista ad Irene Ranaldi
di Dario Ribaldi
In tutte le grandi città c’è il quartiere negletto, più povero degli altri. Nascosto alla narrazione mainstream, quella dei luoghi significativi da visitare. È poco appariscente, appartato, magari escluso e segregato. Come se fosse sospeso tra la vergogna di essere e la volontà di annichilirsi. Spazi descritti come anonimi, malfamati, con attrattive non valorizzate. E, tuttavia, centrali nella storia e nell’esistenza della città stessa.
Trovate un quartiere così ed aspettate che arrivi quella che i media ormai chiamano da tempo “rigenerazione urbana“. Infatti, speculazione immobiliare fa rima con capitalismo e riecheggia slogan vetero comunisti di ormai lontana memoria, quindi demodé. Ora quindi arriva la “rigenerazione urbana” a ripulire le strade e le facciate decadenti dei palazzi. “Aiuto, si salvi chi può, è arrivata la gentrification”, s’inalbera qualcuno, spesso proprio chi è stato il pioniere di quello stesso processo che ora, dalla fase esplorativa, è passato a quella speculativa.
Popoff quotidiano – Gentrification, chi è costei e come agisce? Lo chiediamo alla sociologa urbana Irene Ranaldi(1), autrice, per Aracne editrice del libro “Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York“, il primo saggio comparativo sull’argomento pubblicato ad oggi in Italia. La lettura del fenomeno Gentrification che abbiamo offerto in apertura è corretta?
Irene Ranaldi – Così inizia il processo di imborghesimento – questo alla fine significa alla lettera il termine inglese gentrification – dei quartieri urbani. In poco tempo un’area dove nessuno avrebbe mai pensato di passare la serata o addirittura di vivere, diventa incredibilmente attraente per la classe media, la cui maggiore disponibilità economica stravolge le caratteristiche di un quartiere abituato a un flusso di denaro direzionato a generi o a servizi di prima necessità, non certo al consumo culturale, ludico ed eno-gastronomico. I gentrifier, come colonizzatori, diventano portatori di nuove bisogni e di nuovi consumi che, chi nel business ci sa fare, andrà presto a soddisfare, desertificando l’esistente, a partire dai negozietti tradizionali a conduzione familiare, quelli di prossimità, e coltivando nuovi luoghi di consumo ad immagine e somiglianza dei propri valori e dei propri bisogni. La nuova classe andrà quindi, in pochi anni, a rendere il territorio di cui tanto amava l’autenticità “popolare”, quella dei suoi eccessi kitch da pittoresco proletario, il riverbero dello stile di vita, la way of life, di cui è ambasciatrice. Ecco, mi viene da dire, detto in altri termini, come accade in quelle coppie in cui ad un certo punto uno dei due, generalmente quello in cui la passione è meno certa, più velleitaria: “Tesoro ti amo come sei, ma ti vorrei diverso…“.
P.q. – E qual è la reazione degli abitanti originari a questi cambiamenti?
I.R. – Ci sono territori che a questa pressione gettano la spugna ed i cui abitanti, anche complici i prezzi immobiliari in crescita, preferiscono migrare in nuove periferie. Altri che combattono per conservare la propria identità socio-culturale sul territorio, talvolta con azioni di protesta e contrasto esplicite, anche violente. In altri casi la convivenza è possibile ed ha effetti positivi per entrambi, in una sorta di simbiosi. Infine, ci sono le enclavi, la gentrification a macchia di leopardo e tutt’intorno il tessuto originario e dove, alla lunga, è quasi sempre la prima prevalere erodendo il connettivo della comunità originale. Queste dinamiche sono dettate da differenti condizioni di partenza, più di carattere pratico che politico. L’ideologizzazione di questo tipo di conflitto è in realtà rara ed è spesso espressione di una élite esterna, o comunque estranea, al corpo della comunità. È eterodiretta. In casi rari, ci sono movimenti dal basso, auto-organizzati, che ottengono, invece, ascolto e sostegno. D’altra parte, trovo contraddittoria, ipocrita ed equivoca la posizione del gentrifier: “mi piace il posto per quello che è, ma devo inevitabilmente cambiarlo per vivere come sono”. Un modo di ragionare consumistico, non etico. Ma così è, la mia è solo una sensibilità come ce ne sono tante, anche più radicali e frontiste, rispetto al fenomeno gentrification. Politicizzare il conflitto è possibile perché, come scrivo nel mio libro, la gentrification è in ogni luogo differente e non può essere ricondotta a forze del bene e del male, ma solo a quello che può essere oggettivamente individuato come ciò che accade in un determinato luogo in un determinato momento. Il resto sta a chi ci vive e alle relazioni che opera nel contesto con cui è in relazione.
P.q. – E dopo la gentrificazione, il nulla?
I. R. – Più che il nulla… nulla, semmai, sarà più come prima. È per questo – ma anche per il boom del valore immobiliare delle zone in cui passano – che dopo un po’ i gentrifier, veri trend-setter del marketing territoriale, migrano alla ricerca di un altro luogo da rinarrare dal loro punto di vista e gentrificare. In un ciclo infinito e ineluttabile. Una coazione a ripetere alla ricerca del posto giusto e della sua distruzione che dal punto vista antropologico ha poche analogie se non quello dei nomadi che consumano le risorse di un territorio e poi partono alla ricerca di altri territori da consumare. Solo che i territori esauriti dai cacciatori raccoglitori si rigenerano, quelli gentrificati sono modificati definitivamente e difficilmente ritorneranno ad essere ciò che erano. Si sono modificate irrimediabilmente relazioni, luoghi, persone, storie che sono essenziali per capire un luogo. Definiamo socialmente devastanti gli sventramenti urbani come quelli della follia urbanizzatrice di Mussolini, a Roma, a Spina di Borgo, ma quello che accade, in modo generalmente soft oggi, non è granché differente.
P.q. – Una visione deterministica… non c’è nulla fare per controllare il fenomeno e condizionarne positivamente gli esiti?
I. R. – La gentrification non è necessariamente un processo dagli esiti ineluttabili se i poteri locali, formali ed informali, esercitassero un ruolo da contro altare alle logiche dell’intervento speculativo che va a modificare il quotidiano dei residenti. Manca una mediazione, il filtro, il governo, perché del territorio, da parte di chi lo vive, manca la percezione completa e complessa di ciò che sta accadendo. Viene troppo spesso considerato spazio uno spazio da riempire, non luogo di valori, storie e relazioni. Quindi capita che di fronte alle lusinghe della speculazione, spacciata per modernità, il territorio s’inchini perché gli manca la consapevolezza del suo valore, anche politico. Oppure che ci sia la più o meno esplicita e subita complicità dei poteri, magari anche in buona fede, ma che sul territorio sono calati e non ne sono espressione.
New York | Brooklyn for Sale: The Price of Gentrification – BRIC Community Town Hall.
P.q. – Il suo osservatorio sul fenomeno?
I. R. – Sono una sociologa urbana, vivo da trenta anni nell’ex quartiere operaio di Testaccio a Roma, una zona ricca di memoria, storia e contemporaneità. Sono tante le narrazioni che ho incontrato – e che prima o poi in anni di ricerche si sono incrociate – in questo luogo dove sorge l’immaginario l’ottavo colle di Roma, il Monte dei Cocci o Monte Testaccio, la prima discarica controllata di Roma imperiale. Un rione, all’interno delle Mura Aureliane, quasi un enclave, tanto è circoscritto tra il fiume, il colle Aventino e le mura Aureliane, considerato fino a pochi anni fa, con un fantasioso ossimoro, “periferia storica“, visto che, all’interno delle mura, ha pari dignità con gli altri Rioni, i quartieri storici della Capitale. Un colle nato dagli scarti del resto della città e che oggi è a suo modo uno dei poli identitari e narrativi della città stessa. Forse è per questo, perché da sempre sede di commerci prima e di arti clamorose, operaie, poi, che è stato escluso per tanto tempo dalla narrazione ufficiale della città, quasi negletto per la sua identità operaia e popolare, distante da quella borghese che lo stato umbertino prima e fascista poi dovevano offrire della Capitale. E non è che dopo di loro le cose diano andate meglio. Poi, il cambiamento, quello che ho visto a Testaccio, l’ho visto anche in un quartiere di New York, Astoria, nel Queens, ed ho deciso di capire quali fossero le differenze. Da lì nascono i miei studi sul campo ed il libro che ho scritto.
P.q. – Quindi New York. Ma restiamo con i piedi per terra… Il Monte… cosa è il Monte dei Cocci?
I. R. – Il Monte dei Cocci è nato e cresciuto lungo il corso di tre secoli tra il I e il III d.C. dall’accumularsi di cocci di anfore per trasportare olio provenienti dalla Spagna e scaricate al Porto dell’Emporio. Le anfore erano annonarie, quindi sigillate, e l’unico modo per trasferirne il contenuto era romperle. Da qui la necessità di un discarica per i cocci che questo processo produceva. Il Monte dei Cocci dà nome al rione, “testae” in latino significa infatti di “di coccio”.
Si tratta, allo stesso tempo, di un monumento naturale e di un documento. I saggi archeologici, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, a causa della vastità dell’area da esaminare, hanno ricostruito, con una precisione paragonabile a quella di un archivio, fatto non di carta ma di scarti, la storia commerciale dell’Impero romano lungo tre secoli. Un sito unico al mondo, ma, incredibilmente, chiuso al pubblico. Uno stato delle cose che ne fissa la percezione, complice anche la particolarità del rione Testaccio, come di uno spazio senza tempo ed avulso dal resto del territorio. Una dimensione terza. Altra. Una sensazione, piuttosto che un luogo, quella del monte. Assolutamente estrema e percepibile, solo quando lo si visita. Ed è raro poterlo fare. Perché questo sito archeologico è aperto solo su appuntamento e gestito da una società che controlla, con comprensibili difficoltà, soprattutto in questo periodo di crisi, gli accessi a moltissimi beni archeologici, ambientali ed artistici del Comune di Roma.
P.q. – Un simbolo? Un segno? Cosa?
I. R. – Anche se la citazione magari può sembrare scontata, m’ispiro, nel cercare di comprendere un luogo, alle parole che Italo Calvino fa pronunciare a Marco Polo nelle “Città invisibili“:
Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
La mia domanda, in questo caso, è il perché dell’inaccessibilità di questo luogo. Una sottrazione alla città intera, non solo alla sua memoria, ma al piacere di poter osservare dalla sua sommità l’altra Roma. Non quella antica, medioevale, rinascimentale, barocca ed umbertina, che si può apprezzare dai belvederi tradizionali del Gianicolo, del Pincio, dell’Aventino e del Campidoglio. Quelli, per dire, ufficiali. Ma dal Monte si vede una città diversa. Dal Monte, mi piace sottolinearlo, perché, singolarmente, così è definito non solo dalla vulgata locale, ma anche da quella cittadina, Testaccio è Monte molto di più di quanto “monti” siano definiti gli altri colli. Forse perché, non edificato, rappresenta una singolarità nel panorama cittadino quanto lo è un un faro all’orizzonte. Un inconscio ed incompreso punto di riferimento.
Il Monte Testaccio, dicevo, è tagliato fuori da quelle viste della Roma antica e nobile. Gli volta le spalle e volge il suo sguardo alla città moderna, quella popolare, operaia. La città del lavoro e della fatica, del fermento e della lotta, del riscatto. Quella del panorama industriale della zona Ostiense e Marconi, dell’ex Mattatoio e del Campo Boario. Quella città, strappata alla malaria, che scorre lungo il Tevere fino alla sua foce, verso il mare. Immaginiamo Pier Paolo Pasolini, dopo aver meditato sulla tomba di Antonio Gramsci nel vicino Cimitero Acattolico, salire sul Monte dei Cocci ad osservare questa città, fiera e dolente, che Proprio ne “Le Ceneri di Gramsci” ci ha saputo cantare con tanta austera, autentica ed insuperata intensità.
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grandelurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
P.q. – Il Monte come luogo significativo e non segnato, quindi?
I. R. – Esatto, ma anche di più. Un simbolo di quello che a Roma è stato sottratto della sua identità e narrazione più profonda. Per questo ho lanciato una petizione su Change.org rivolta al Comune di Roma e alla Sovrintendenza Archeologica del Lazio per indire un bando pubblico per l’assegnazione – alle realtà del territorio – della gestione di attività per la promozione di questo luogo. L’obiettivo è, allo stesso tempo, valorizzare il luogo e creare, nel territorio, occasioni di occupazione che abbiano effettive ricadute locali e non effetti speculativi. E, a partire da questo, iniziative analoghe per i tanti luoghi negati della nostra e delle nostre città. Non solo archeologici. Anche ambientali, artistici, storici, archeo-industriali, identitari. Che appartengono a tutti, a partire da chi li vive, e che devono essere di tutti e non sottratti alla comunità.
P.q. – Il simbolo di un modo nuovo e differente di guardare alla città e viverla?
I. R. – Sì, parto da questo. Non è un’iniziativa ambiziosa. Se non nell’ambizione di poter essere trasferibile ad altri contesti su cui, con altri che condividono il concept, il progetto risulti trasferibile. A Roma o altrove. A sostegno della campagna ho ideato un logo, che, grazie alla piattaforma internazionale Worthwearing, è anche una maglia in vendita a suo sostegno e rappresenta quello che per me è Monte Testaccio: l’Ottavo Colle di Roma, un nuovo modo di vedere le città attraverso i luoghi camminandola ed alzando lo sguardo per guardare alla sua storia ed al suo significato oltre. Ho poi creato un’associazione culturale per permettermi di sostenere, insieme ad altri, il progetto ed i suoi sviluppi, e l’ho chiamata “Ottavo Colle” che ha un suo sito web, ancora in costruzione, ed una pagina Facebook. Ottavo Colle è un punto di osservazione e di riferimento, un luogo dell’immaginario che si propone di osservare le trasformazioni e le dinamiche delle metropoli e delle identità urbane in movimento. Il mio scopo, con Ottavo Colle, è organizzare incursioni urbane in luoghi dismessi, in aree di archeologia industriale, nelle “periferie” storiche delle città italiane. Per Ottavo Colle il cammino significa azione, costruzione e narrazione. Per chi fosse interessato, approfitto dell’occasione per pubblicizzarla, Domenica 5 Luglio 2015 alle ore 11.00 ho ottenuto un’apertura del Monte dei Cocci ed invito chiunque sia interessato a partecipare alla visita per scoprire insieme la storia ed il futuro di questo territorio al centro di cambiamenti e trasformazioni.
P.q. – Appuntamento a domenica 5 luglio su Monte Testaccio per mettere in pratica la tua proposta, allora?
I.R. – Certo. A domenica sull’Ottavo Colle. Contattatemi su Ottavo Colle e sulla Pagina Facebook. Vi aspetto.
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1 – Irene Ranaldi, sociologa urbana, è autrice per Franco Angeli, della monografia “Testaccio da quartiere operaio a village della capitale” (2012) e, per Aracne, del saggio comparativo “Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York” (2014).