Lo scrittore si è spento all’età di 73 anni a Novara. Mercoledì i funerali
di Maurizio Zuccari
Si è spento all’età di 73 anni, a Novara, Sebastiano Vassalli. Tra i maggiori scrittori italiani contemporanei, da tempo malato, a maggio era stato candidato al premio Nobel dall’accademia svedese, a settembre avrebbe ricevuto il Campiello alla carriera. Col suo romanzo più noto, La chimera, aveva vinto il premio Strega nel 1990. la Camera ardente sarà allestita nei locali della prefettura, dove mercoledì si terranno i funerali civili solenni a cura del Centro novarese di studi letterari di Roberto Cicala, che ne ha comunicato la morte.
L’ultima volta ci eravamo incontrati sulla via Francigena, davanti all’abbazia di Sant’Andrea. Non eravamo nella sua Novara ma a Vercelli, ai primi d’agosto del 2012, caldo e afa non mancavano lo stesso in questa ex terra d’acque e risaie invasa dai capannoni chiusi. La crisi stava scuotendo l’Occidente da un pezzo e l’argomento era questo, oltre al suo ultimo libro che aveva voluto dedicare al denaro, l’ultimo dio sulla terra, sosteneva. Anche allora, come sempre accadeva nei nostri incontri, disse qualcosa che sulle prime non era facile capire, per niente facile condividere. Vedi queste mura?, fece indicando la facciata duecentesca – ma abbondantemente rifatta – della cattedrale. Credi che gli uomini che le costruirono non volessero la felicità? Vaglielo a dire a loro, del diritto al lavoro, alla felicità.
Era tutto lì, Vassalli. In una frase all’apparenza sturbante, dissonante rispetto ai circuiti abituali del pensiero, eppure vera come un pestone. Ti costringeva a pensare anche quando non eri d’accordo. Anzi, soprattutto quando non eri d’accordo con quel che diceva o scriveva, sul Corriere o altrove. Come sui No Tav, da lui avversati. Però quel pensiero, quelle parole lasciavano dentro un tarlo, ti costringevano a riflettere, a chiederti dove fosse la ragione, ammesso ve ne fosse una, e dov’eri tu, anche se poi a lui non è che importasse molto. Si limitava a sorridere sotto ai baffi, cambiando visuale e discorso, forse insofferente della scocciatura di dover parlare, lui così parco di parole, in fondo.
Vassalli era nato a Genova nel ’41, in piena guerra mondiale, ma la sua vita si era sempre svolta dalle parti di Novara, in quella terra d’acque e risaie poi divorata dai capannoni industriali, a loro volta rosicchiati dalla crisi, dove solo i centri commerciali allignano e i campanili svettano dalle macchie brulle dei paesotti. Un nulla pieno di storie, diceva. Si era sistemato in un ex chiesa sconsacrata a due passi da Novara, la cascina Marangana, e viveva lì, schivo ma non del tutto isolato, col monte Rosa che tanta parte avrebbe avuta nei suoi romanzi a fargli da fondale e i suoi personaggi a tenergli bordone. Sono tutti qua attorno, spiegava allargando il braccio, mi fanno compagnia. E tu giravi lo sguardo per l’aja della vecchia cascina e non potevi che dire sì, li vedo, e salutare pur’essi prima di andare via.
Vassalli era una sorta di ircocervo letterario che aveva divorato un pezzo di sé ed era rimasto lì. Incerto se mangiare il resto o digerire il pasto. Del fulminante abbrivio, dei fasti e nefasti dell’avanguardia letteraria del Gruppo ’63 cui aveva partecipato, non voleva parlare. Delle sue prime prose sperimentali, da Narcisso a Tempo di màssacro, men che meno, le considerava carta straccia buona per accenderci il caminetto, fumose perdite di tempo. Quando, calmati i bollenti spiriti avanguardisti, tramontati come gl’ideali politici del tempo – e lui, nato poeta e pittore, ai tramonti aveva dedicato intramontabili versi – s’era messo a comporre una prosa più parca, asciutta, erano venute le prove a mezza via più belle, da Abitare il vento a Mareblù, dove il livore s’accompagnava al grottesco.
Il successo arriva con La chimera, romanzo storico e metaopera letteraria che segna un tempo, anche personale, e lo consacra con lo Strega. Ma rispunta l’ircocervo, nei libri successivi sul risvolto di copertina fa stampare dal suo editore, Einaudi, che il romanzo non partecipa a nessun premio letterario. Mai più corse di cavalli e cani insieme, tagliava corto. Nelle opere della maturità, intercalate alle inchieste e ai reportage, letterari e non, sugli italiani (non tanto) brava gente come sull’alto Adige, su Dino Campana – il mio babbo matto spirituale, amava dire – come nei romanzi storici o focalizzati su una contemporaneità dallo sguardo strabico, con l’occhio rivolto al passato e al presente, lo stile si fa via via più asciutto, rarefatto. Lontanissimo dalle scoppiettanti prove giovanili, didascalico, scialbo quasi. La stanchezza del vivere, le prove a cui la vita costringe, sembrano asciugargli l’estro creativo. Resistono sporadici racconti, e l’impegno di scritti “a latere” che l’amico Cicala edita e raccoglie nel suo centro novarese.
L’ultimo Vassalli resta un esempio di secchezza espositiva mai disgiunta da una vena pedagogica, ma segna il ritorno al romanzo lungo con Le due chiese, Comprare il sole e infine Terre selvagge, edito da Rizzoli. Dove a farla da padrona è sempre la sua terra d’acque, il suo nulla pieno di storie calate al tempo di Mario e Silla non ancora feroci avversari e dei Cimbri che le invasero, ai primordi dell’avventura romana. La stanchezza di scrivere l’aveva abbandonato, il male che lo ha portato alla tomba no. Di lui restano grandi opere, e un beffardo sorriso sotto ai grandi baffi che non sarebbero spiaciuti a Guareschi. Ciao maestro.