La polizia israeliana spara sulla protesta per la morte del piccolo Ali. Uccisi altri 2 giovani palestinesi. Il Governo di Tel Aviv condizionato dai coloni (fotogalleria)
di Marina Zenobio
Ieri la Palestina ha sepolto Ali Dawabsha, il bambino di 18 mesi bruciato vivo nel rogo della sua casa appiccato da coloni israeliani nel villaggio di Duma, in provincia di Nablus (Cisgiordania). E da ieri sta montando la protesta dei palestinesi, da Ramallah a Gaza a Gerusalemme est, e altro fuoco, questa volta quello delle armi dell’esercito israeliano, hanno ucciso altri due giovani palestinesi.
Ieri, Mohamed Hamid al Marsi (17 anni) è stato ucciso a Gaza, vicino Beit Lahya, nei pressi della frontiera tra Israele e la Striscia. Secondo le forze militari israeliane il giovane si era avvicinato troppo ai reticolati di demarcazione, ignorando ripetuti avvertimenti. Il giovane sarebbe morto sul colpo, mentre un suo amico, rimasto ferito, è in ospedale.
Stanotte a cadere sotto i colpi di arma da fuoco dell’esercito di Tel Aviv è stato il 18enne Laith al-Khaldi, residente nel campo profughi di Jalazon. Laith, centrato in pieno petto da una pallottola israeliana, è morto all’alba di oggi per le ferite riportate ieri al checkpoint di Atara, vicino Ramallah, dove erano scoppiati scontri tra soldati e manifestanti. L’esercito si è giustificato dicendo di aver risposto al lancio di molotov da parte dei manifestanti.
Con queste uccisioni sale a 20 il numero dei civili palestinesi che hanno perso la vita per mano delle forze israeliane dall’inizio dell’anno. Sono dati confermati dall’Onu e riporta anche che l’esercito di Israele e la sua polizia di frontiera ha anche causato il ferimento di almeno 1043 civili palestinesi.
Al contrario della postura presa dalla comunità internazionale, secondo cui Israele deve fare giustizia e punire “le mele marce degli estremisti israeliani colpevoli di attaccare i civili palestinesi”, con le proteste in corso a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est, i palestinesi protestano perché rifiutano la logica per cui si stratta di “episodi estemporanei” ad opera di “mele marce” sulle quali, comunque, il governo e i militari israeliani chiudono un occhio. La violenza dei coloni non è altro lo strumento usato indirettamente per espandere le colonie e allontanare la popolazione palestinese, in particolare quella ancora che risiede nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania illegalmente occupata e sotto controllo militare e civile di Tel Aviv.
E’ indubbio ormai che il problema dei coloni sono la causa principale per cui il processo di pace non può proseguire. Il governo israeliano attuale è fortemente condizionato dai coloni, molti ministri vengono dalle colonie, tra cui Naftali Bennett, ex ministro dell’educazione, attuale ministro dell’economia e ministro dei servizi religiosi, nonché leader del partito “Patria ebraica”che pochi giorni fa dichiarava: “La missione di questo governo è costruire”. Spingono per nuovi insediamenti, per aumentare il numero degli abitanti degli insediamenti già esistenti. E la polizia, lo Shin Bet, che in genere è abbastanza esperto nel rintracciare i colpevoli degli attentati da parte palestinese, non è riuscita e non vuole arrivare ai terroristi ebrei.
E lo dimostra il fatto che ieri, come riporta anche Nena News, ogni manifestazione palestinese contro il terrorismo ebraico dei coloni è stata dispersa dall’esercito israeliano con la forza, con proiettili veri e di gomma, con gas lacrimogeni e granate stordenti. Oltre ai morti, molti palestinesi sono rimasti feriti (uno gravemente nel campo profughi di Shuafat), chi al petto, chi alla testa, chi alla schiena.