Rubén Espinosa, giornalista e attivista, aveva più volte denunciato le minacce ricevute per il suo impegno sociale e professionale
di Marina Zenobio
Aveva 32 anni Rubén Espinosa, fotoreporter e attivista sociale, collaboratore dell’agenzia Avc-Noticias, della rivista Proceso e dell’agenzia fotografica Cuarto Obscuro. Il suo corpo, con due colpi di pistola al petto e evidenti segni di tortura, è stato trovato all’alba di sabato scorso nel dipartimento della centrale Colonia Navarte, un quartiere della classe media di Città del Messico. Insieme a lui i corpi di quattro donne, anch’esse assassinate ma la cui identità e sul perché siano state uccise non si sa ancora nulla, forse testimoni scomode.
Ruben Espinosa da tempo aveva denunciato pubblicamente di essere minacciato mentre viveva e lavorava nella città portuale di Veracruz (Golfo del Messico). Il 15 luglio il giornalista era stato avvicinato da un gruppo sconosciuto che lo aveva minacciato di morte nella città di Xapala.
Per questo da poco si era trasferito nel Distretto Federale di Città del Messico, una sorta di esilio volontario dove però non è stato adeguatamente protetto e la morte lo ha raggiunto anche qui, facendolo diventare il tredicesimo giornalista veracruzano assassinato nel paese dal 2012, il quarto dall’inizio dell’anno in corso. Secondo la Procura generale delle repubblica messicana, in 15 anni sono stati assassinati 130 giornalisti e 25 risultano scomparsi.
L’omicidio di Espinosa segna una svolta nella violenza contro la stampa in Messico, ha denunciato Articolo 19 (A19), organizzazione internazionale che si dedica alla difesa della libertà di espressione nel mondo. “E la prima volta che un giornalista, praticamente un esilio interno, è assassinato nel Distretto Federale”. Per Dario Ramirez, direttore di A19, le minacce contro Espinosa erano più che pubbliche e il suo assassinio “si è prodotto senza che le autorità incaricate muovessero un dito per impedirlo. La capitale del paese non è più il santuario di decine di giornalisti di tutte le regioni del paese che da oltre un decennio sono fuggiti dalle proprie residenze e dall’esercizio professionale per rifugiarsi in una città che offriva sicurezza, ormai l’illusione di sicurezza”.
Un meccanismo di protezione opaco e inutile
Il governo messicano ha istituito un Meccanismo per la protezione dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani, quello che stesso meccanismo che avrebbe dovuto proteggere Espinosa, che è risultato, secondo quanto denunciato da un centinaio di organizzazioni della società civile, nazionali e internazionali “incompleto, opaco, inutile”. Una nota pubblicata due giorni prima l’assassinio di Espinosa, il 29 luglio, al centralino di emergenza dell’ente di protezione non rispondeva nessuno, numero verde senza segnale…
Così che oltre giornalisti, dal giugno del 2012 o oggi sono stati assassinati anche 32 attivisti per i diritti umani. In questo stesso periodo 114 giornalisti e 89 attivisti hanno fatto richiesta di protezione da ogni parte del paese.
Lo scorso 10 luglio, Reporters sans frontières (Rsf), ha chiesto al presidente messicano Enrique Peña Nieto di rafforzare il Meccanismo di protezione per Ruben Espinosa, ma non è servito a nulla. Alla vigila della visita di stato che Peña Nieto ha fatto in Francia, dalla sua sede principale di Parigi Rsf ha chiesto con forza al presidente di frenare la violenza contro i giornalisti messicani. L’appello è stato oscurato dalla notizia della fuga de re dei narcos Chapo Gurzman, avvenuta l’11 luglio scorso, dal carcere messicano di massima sicurezza dell’Altiplano.