I 12 paesi coinvolti nei negoziati per il TPP non hanno raggiunto un accordo nel summit alle Hawaii terminato venerdì scorso
di Marina Zenobio
L’incontro di venerdì scorso a Maui, la seconda isola delle Hawaii, che ha visto la presenza dei 12 paesi coinvolti nei negoziati per creare una zona di libero TransPacifico (TPP nell’acronimo inglese, Trans-Pacific Partnership), si è concluso con un nulla di fatto. “It was a failure” (è stato un fallimento), la dichiarazione finale di alcuni negoziatori. Ma meglio non abbassare la guardia.
Secondo Michael Froman, rappresentante speciale Usa per il commercio, i paesi intervenuti al summit hanno deciso di continuare i negoziati a livello bilaterale per cercare di superare differenze e ostacoli su temi chiave per l’accordo, tra cui produzione e commercio di latte e derivati, di zucchero e riso, di farmaci e automobili, nonché la questione dei brevetti e della proprietà intellettuale. Nessun altra data, per ora, è stata fissata per un nuovo incontro multilaterale.
Oltre a rappresentanti di grosse multinazionali, coinvolti nel TPP sono i governi di Australia, Canada, Cile, Brunei, Usa, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam, paesi che insieme rappresentano circa il 40% del Pil mondiale.
L’incontro alle Hawaii era stato presentato come fondamentale per arrivare ad un accordo definitivo, per questo il suo fallimento rappresenta, in particolare per gli Usa, una delusione se non una sconfitta. Barak Obama, che aveva fatto del TPP il suo cavallo di battaglia per controbilanciare la sempre più aggressiva economia cinese, avrebbe voluto raggiungere subito un accordo da far ratificare al Congresso prima dell’inizio della campagna presidenziale fissata per novembre 2016. Probabilmente non ce la farà.
Quello del TPP è un accordo che non convince le opinioni pubbliche di diversi paesi e non piace affatto a centinaia di organizzazioni sociali che vedono, nell’accordo, più un favore alle grandi multinazionali che un reale vantaggio per le economie nazionali, ed hanno organizzato campagne di protesta a livello internazionale.
Per la Rete messicana di azione contro il libero commercio (RMLC), quello che è fallito a Maui è il fondamentalismo neoliberista. Ma non sarà un fallimento definitivo, perché la posta in gioco è altissima. Il TPP, come il TTIP a noi geograficamente più vicino (riguarderà 800 milioni di persone e due potenze, Usa e Ue), punta a creare norme convergenti nel campo sociale, tecnico, ambientale, nel campo della sicurezza, della soluzione di controversie, l’accesso ai farmaci, l’educazione, la giustizia, il commercio, il codice di lavoro, la protezione dei dati digitali e la regolamentazione della finanza. Il tutto a favore delle grandi transnazionali che tanta influenza hanno all’interno dei governi dei distinti Stati. Non a caso anche il premio Nobel Joseph Stiglitz ha definito il modello di questi trattati commerciali “fondamentalismo mercantile”
Walden Bello, in una intervista rilasciata meno di un anno fa a Sbilanciamoci, dichiarava: “Ttip e Tpp sono soprattutto strumenti geopolitici. Più in generale mirano a contenere il tentativo dei Brics LINK di creare un blocco economico alternativo a quello occidentale. In questo senso, hanno anche una dimensione ideologica che non è da sottovalutare. Essi incarnano i ‘sani’ valori occidentali – il libero commerciale, la civiltà, lo stato di diritto ecc. -, rispetto ai valori alieni dell’ ‘altro’. Questo rivela anche l’ipocrisia dell’ideologia del ‘libero mercato’: se fosse veramente tale, questi accordi dovrebbero essere estesi anche a paesi come la Russia e la Cina, ma ovviamente questo non è minimamente contemplato dagli Usa o dall’Ue”.