Settant’anni fa, usciva La fattoria degli animali di Orwell. Favola amara sul totalitarismo e manifesto dell’antistalinismo, anticipatrice del Grande fratello
di Maurizio Zuccari
C’erano Napoleon e Palla di neve, Clarinetto e il Vecchio maggiore. C’erano loro, i maiali, e asini, cavalli, cani e pecore, polli e conigli. C’erano tutti gli animali, insomma, nella fattoria che dette a George Orwell la celebrità e al mondo un libro che ha superato, a tutt’oggi, 25 milioni di copie vendute, tradotto in 30 lingue.
The animal farm – La fattoria degli animali – questo il titolo originale dell’opera, arriva sugli scaffali inglesi negli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale, il 17 agosto 1945, dopo una lunga gestazione e non poche difficoltà di pubblicazione. Il perché è presto detto: “The farm”, concepito durante gli anni della guerra civile spagnola, dove Orwell militò nelle file del Poum filotrotzkista, e completato nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, era un libro decisamente antistalinista. Troppo per piacere al vasto pubblico nel momento in cui l’Urss si sobbarcava il peso del conflitto e Stalin era un alleato prezioso. Poi, nel volgere di pochi mesi l’ex alleato divenne il nemico pubblico numero uno e Orwell un sagace scrittore dalla vista lunga e la penna brillante. La sua fattoria iniziò a spopolare, anticipando i temi di quel 1984 che avrebbe fatto dell’opera e del suo autore un monumento del romanzo distopico e della denuncia del totalitarismo in chiave anticomunista.
Eric Arthur Blair – questo il vero nome dello scrittore nato in India ai primi del ‘900 – aveva le sue ragioni per esserlo. Scampato alla guerra di Spagna, dove si era beccato un proiettile nel collo, troppo lungo per le trincee repubblicane, e rimpatriato in tutta fretta con la moglie Eileen anche per sfuggire al repulisti stalinista tra le file di anarchici e trotzkisti, concepì la sua parodia animalista in chiave antitotalitaria e anticomunista. Ogni personaggio della fattoria, ogni vicenda di questa favola moderna è pregna di rimandi a personaggi storici o paradigmi sociali, nell’ottica della denuncia dell’involuzione della rivoluzione russa e, più in generale, dei meccanismi del pensiero totalitario.
Nella fattoria del contadino Jones, un alcolista che impersona lo zar Nicola II e finisce i suoi giorni ubriaco fradicio in una bettola, gli animali, sfruttati e bistrattati, si rivoltano. Sobillati dai discorsi del Vecchio maggiore, un anziano maiale che riecheggia Lenin, si ribellano ai loro sfruttatori e prendono il potere guidati dagli altri suini divenuti leader della rivolta, frustrando ogni sforzo degli umani di riprendere il possesso della fattoria. Issata la bandiera verde, al centro della quale campeggiano uno zoccolo e un corno, parodia della falce e martello, l’autogoverno si trasforma presto in una dittatura più feroce della precedente, dove i maiali si ergono a dittatori sugli altri animali, protetti dai cani da guardia (la polizia politica). Forte di un’ideologia totalitaria che miete vittime innocenti, a partire dal cavallo Gondrano, simbolo del popolo stakanovista, Napoleon e i suoi accoliti, scacciato Palla di neve (Trotzki) instaurano il socialismo in una sola fattoria e regnano assumendo tratti (dis)umani, in accordo coi nemici di ieri. Parola d’ordine del mondo nuovo è: “Tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri”.
La favola, edita in Italia dalla Mondadori nel ’47, piacque talmente tanto da indurre i caporioni della Cia a finanziarne una trasposizione animata nei primi anni ’50, ovviamente a lieto fine, con la restaurazione della libertà borghese, dopo la morte del dittatore sovietico (nel ’99 sarebbe uscito anche un film per la tv). Orwell era morto da pochi anni, nel gennaio ’50, stroncato a 46 anni dal clima insalubre dell’isola di Jura, nelle Ebridi scozzesi, dove si era ritirato col figlio avuto dalla prima moglie, scomparsa da tempo. Prima di morire, aveva fatto in tempo a consegnare ai servizi segreti britannici una lista di 135 “inaffidabili” in odore di filocomunismo, da tenere d’occhio in tempi di guerra fredda incipiente. Un listone stilato in compagnia dell’amico Arthur Koestler (altro scrittore perseguitato dal regime sovietico e divenuto pervicace anticomunista, di cui aveva sposato la cognata Celia in seconde nozze) che includeva storici marxisti del calibro di Carr e Deutscher, personalità dello spettacolo quali Orson Welles e Charlie Chaplin e molte spie sul libro paga di Mosca, come si sarebbe scoperto all’apertura dell’archivio Mitrokhin.
A settant’anni da allora, la sua favola animalista invita a non credere troppo alle favole, e il suo autore resta un caposaldo della letteratura anglosassone, militante di una battaglia per la libertà che vedeva nei comunisti il principale nemico da combattere, assai più dei nazifascisti freschi di sconfitta e già arruolati fra gli amanti della libertà. Profeta della guerra al totalitarismo globale, incardinò nella sua “Farm”, e soprattutto in 1984, frasi immortali di denuncia dei suoi meccanismi e controllo del pensiero. Tipo: «Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa». Non senza una punta di britannico, cinico aplomb: «Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto». Il Grande fratello era di là da venire, ma già delineato.