Il 31 agosto 1997 a San Siro il mondo aspetta l’esordio di Ronaldo. Nessuno presta attenzione a Dario Hubner, 31enne alla prima in Serie A, pronto a rivoluzionare un copione già scritto
di Carlo Perigli
“Si il proscenio è tutto per lui, 60.000 spettatori per Ronaldinho (Ronaldo, ndr), per l’Inter, e per capire se le turbolenze in casa nerazzurra scompaiono dinanzi al Brescia”. Così, il 31 agosto 1997, Marco Civoli apriva la sintesi di Inter-Brescia, in un’introduzione perfetta per spiegare i protagonisti e le comparse che il circo mediatico aveva designato per questa storia. In campo, con i riflettori e gli sguardi puntati addosso, c’è Ronaldo, un esile ragazzo di 21 anni costato la bellezza di 48 miliardi di lire, le cui qualità, almeno fino ad allora, rientravano solamente nella mitologia. Gli occhi di uno stadio, i flash dei fotografi, le attenzioni di compagni e – sopratutto – avversari, sono tutti per lui, per il nuovo numero 10 nerazzurro.
Dall’altra parte c’è invece il Brescia, timida e umile comparsa, la cui prestazione servirà soltanto a stabilire, in maniera affrettata e approssimativa come sempre, se il Fenomeno è veramente tale. Undici nomi poco altisonanti compongono la formazione delle Rondinelle, buona parte dei quali è all’esordio assoluto in Serie A. Tra questi, c’è anche un certo Dario Hubner, un signore riccioluto che per calcare i campi che contano ha dovuto aspettare i 31 anni. Non è figlio d’arte, o forse si, perchè mentre il padre lavora in cantiere, lui a 14 anni prende la terza media e va lavorare in panetteria, per poi fare il fabbro e l’imbianchino. E il calcio? Un hobby, uno sfogo, una passione da coltivare alla fine di un’interminabile giornata di lavoro. Dario Hubner sogna Rumenigge e Altobelli, gli piacciono quelli concreti, niente giochetti, perchè “quando uno fa l’attaccante sa che la squadra gli chiede di fare gol“. E lui inizia a farlo dall’Interregionale, passando per c2 e c1, quei campionati dove “non ci sono le telecamere e le botte si prendono e si danno“. Poi la B a Cesena e infine la Serie A, l’esordio alla Scala del Calcio, nel tempio che una volta fu la dimora proprio di Rumenigge e Altobelli. Tutto frutto di passione e sacrificio, perchè “tutto quello che ho ottenuto nella mia carriera non me l’ha regalato nessuno“.
In quel momento però l’unico esordio degno di nota è quello di Ronaldo. Lui, il Fenomeno, protagonista sui rotocalchi da Suzana Werner in poi, elemento di spicco della nutrita scuderia targata Nike, al centro, quasi un anno dopo, di uno dei più grandi intrighi del calcio moderno in quel di Francia. Dario Hubner è un’altra storia, alla vita mondana preferisce le Marlboro e un bicchiere di grappa, alla visibilità personale preferisce l’amore della sua seconda famiglia, lo spogliatoio. Che i due si stiano incrociando, il mondo se ne accorge al 28′ della ripresa, quando un pallone dalle retrovie spiove in area interista. Hubner è lì, la aspetta, la stoppa, si gira, e la scaraventa in porta. Niente finte, niente doppi passi, giochetti con la suola o roba simile. Stop-tiro-goal: la sintesi perfetta della concretezza. “Gli schemi contano fino a venti metri dalla porta. Poi, in realtà, un attaccante deve improvvisare. Che cosa differenzia un attaccante da un altro giocatore se non il cosiddetto fiuto del gol?“.
Le telecamere impazziscono, i telecronisti si confondono nell’imprevisto che ha sconvolto il copione. Anche Civoli al momento del gol è ancora perso nella descrizione della sostituzione effettuata poco prima dall’Inter. Riprende il filo quando Hubner abbraccia un compagno e chiede platealmente agli altri di raggiungerli, in un festeggiamento che esalta la rivincita del lavoro collettivo. “Eravamo un gruppo di ignoranti che però remavamo dalla stessa parte tutti quanti” dirà diversi anni dopo, in una delle interviste che, almeno dopo la carriera, hanno riconosciuto i meriti di un attaccante di razza. Mai in Nazionale, forse per i suoi vizi, forse perchè era esploso tardi, forse perchè gli sponsor non sapevano che farsene di un personaggio così tanto normale e sopratutto così poco “pubblico”. Mai una velina, mai una paparazzata a sorpresa, per parlarci è sufficiente andare nel bar che ora gestisce in un paesino in provincia di Crema. Magari, tra una marlboro e una grappa, fatevi raccontare di quella volta a San Siro, di quando portò la sua classe operaia sotto i riflettori, rivoluzionando il copione del film di Ronaldo.
Dario Hubner, la classe operaia che oscurò Ronaldo
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