Una nuova perizia, consegnata in Procura da Ilaria Cucchi, scova due fratture recenti, di origine traumatica. Le altre perizie non l’avevano mai trovate perché osservavano una porzione diversa
di Checchino Antonini
Caso Cucchi: qualcuno avrebbe manomesso la Tac per far scomparire le tracce della frattura fatale, dovuta alle percosse subite, quella che avrebbe innescato lo strazio che portò alla morte di Stefano, 31 anni, morto sei giorni dopo l’arresto, il 22 ottobre di sei anni fa. Pochissime ore fa, Ilaria Cucchi ha varcato di nuovo l’uscio della Procura per consegnare una consulenza medica che smentisce le perizie utilizzate finora nei due gradi di processo che si sono conclusi con un nulla di fatto – assolti medici penitenziari e guardie carcerarie coinvolti – proprio per le lacune dell’impostazione iniziale tutta tesa a glissare sul contegno dei carabinieri – anche se fornirono versioni contrastanti – nella vicenda e a negare che l’origine del calvario risiedesse nelle botte che vennero riservate al giovane arrestato fin dalle prime fasi della vicenda.
Sono chiari, secondo la nuova perizia, i segni radiologici di lesione traumatica nelle vertebre L3 e S4 ma non sono presenti segni di consolidamento osseo, segno di attività riparative. In altre parole le fratture riscontrate possono essere definite come recenti, 7-15 giorni prima della morte. Ma le informazioni radiologiche non riescono a essere più precise. Certo è che solo dopo la seconda-terza settimana cominciano a manifestarsi i primi processi riparativi. La storia della frattura vecchia è dunque roba vecchia. Le due fratture sono traumatiche determinate da un trauma compressivo. La consulenza, tuttavia, rileva che la perizia presentata al processo consiste in immagini di qualità decisamente inferiori a quelle della Tac della nuova perizia. Non solo: il perito è convinto che le altre perizie si siano concentrate su una porzione diversa, sulla parte inferiore di L3. Insomma: la vertebra sarebbe stata tagliata ad arte, oppure per una clamorosa svista, così da mettere da parte quella con la frattura traumatica e vedere solo un antico trauma di Cucchi che, al momento dell’arresto era in forma al punto da essere appena uscito dagli allenamenti di boxe. A dirlo è il badge della sua palestra.
Si arricchisce di un nuovo tassello l’inchiesta bis disposta al termine dell’insoddisfacente processo d’appello. Nelle motivazioni della sentenza, l’indicazione di provare a forzare il muro di gomma che ha celato per sei anni l’operato dei carabinieri nel caso Cucchi. Il pm che istruì la prima indagine sembrò assecondare il dictat dell’allora ministro La Russa. Poco tempo prima il pm salì agli onori delle cronache quando fu sbattuto in prima pagina, poco prima del caso Cucchi, un povero rumeno considerato il mostro della Caffarella. Ma non era vero niente. Ora, in rapida successione sono giunte diverse notizie: l’indagine su un maresciallo per falsa testimonianza, era il comandate della stazione dove Stefano passò la notte dell’arresto. Poi sono spuntati due testimoni in divisa che sarebbero stati in Procura a parlare con Pignatone. Infine, per ora, la nuova consulenza sulla frattura, conseguente al pestaggio, che paralizzò lentamente il trentuenne fino a ucciderlo. Ilaria, sua sorella, e Fabio Anselmo, il legale della famiglia, ne erano certi: la sentenza d’appello non avrebbe chiuso la vicenda. Continua la battaglia per verità e giustizia.
«Aveva ragione la famiglia di Stefano Cucchi. Quella sentenza di appello che ha assolto tutti non poteva essere un colpo di spugna. Finalmente si sono accesi i riflettori sull’operato dei carabinieri quella notte e nei giorni successivi. All’epoca ogni indagine fu inibita dalla pesante intromissione del ministro La Russa. L’ostinazione della famiglia, l’attenzione e la solidarietà delle mobilitazioni e dell’opinione pubblica, l’impegno dell’avvocato e della procura, impediscono di spegnere i riflettori su questo caso di mala polizia. Ora si faccia piena luce sulle responsabilità, in ogni settore e ad ogni livello, della morte di un ragazzo innocente». È quanto chiede Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea.