Ecco l’intervento del padre di Federico Aldrovandi al convegno di questa mattina, a Ferrara, contro la tortura
di Lino Aldrovandi
Buongiorno a tutti e grazie di essere qui presenti a dieci anni da un’assurda morte, a ricordare ancora una volta un ragazzo ucciso senza una ragione che oggi avrebbe 28 anni e che avrebbe potuto essere anche vostro figlio. Ucciso da chi avrebbe dovuto e potuto riportarmelo a casa una maledetta domenica mattina. In questi lunghi dieci anni, quanti processi, quanta gente pronta a giudicare sempre e solo Federico, a prescindere dalle responsabilità palesi ed inequivocabili processualmente costruite con tanta fatica. E quante altre storie maledette conosciute, con lo stesso unico comune denominatore: “se l’è cercata”. No signori perbenisti ipocriti, nessuno se la cerca mai la morte, e quando in mano dello Stato ancora meno, e un giorno si spera non accada anche a voi. Federico non avrebbe voluto essere ricordato né oggi, né mai. E ogni volta che penso a quell’alba infame e violenta piena di errori ma soprattutto di orrori, non possono che venirmi in mente, come genitore, le sue ultime parole di “basta e aiuto”. Parole semplici queste che non avrebbero dovuto necessitare di protocolli operativi, sul come intervenire, sul come agire, come in questi anni e qualche settimana fa ho sentito proporre. Sicuramente condivisibili, ma non attinenti al caso dell’uccisione di mio figlio.
Dicono: “che c’entra il reato di tortura con la morte, o peggio, come in realtà avvenuto, con l’uccisione di Federico?”
Vorrei chiedere a chi sostiene ciò, se il figlio fosse stato il loro, e a fine percorso giudiziale fossero venuti a conoscenza che il loro figlio, senza aver commesso alcun reato, implorante verso quegli agenti di smetterla, ne fosse uscito bastonato di brutto per mezz’ora con 2 manganelli tornati rotti alla questura, tempestato di calci senza alcun motivo mentre a terra era bloccato, con 54 lesioni sul suo corpo, soffocato, e alla fine con il cuore spezzato, se non pensano che quella morte fu una vera tortura.
A chi continua ad offendere la memoria di Federico cito una frase significativa del Giudice Caruso contenuta nelle motivazioni della I^ sentenza e che dice molto su quella morte: “Molti giovani perdono la vita tragicamente. Pochi, forse nessuno, la perdono nel modo in cui e’ morto Federico Aldrovandi”.
Di questa tragica storia tralascio di parlare dei depistaggi e delle omissioni emerse a carico di altri poliziotti, che portarono ad un altro processo con altre condanne. Depistaggi ed omissioni che costrinsero, solo da un certo periodo di questa disgustosa storia, ad un faticoso percorso di verità e giustizia, sia ai miei avvocati che alla stessa Procura, con un palese vizio di fondo iniziale, riconosciuto ed evidenziato nelle stesse motivazioni di condanna dallo stesso giudice di I° grado, ovvero di un’indagine condotta dalla stessa polizia su se stessa, causa conseguente della condanna mite comminata ai responsabili dell’omicidio di Federico, e non a caso definiti addirittura in cassazione durante l’arringa del procuratore generale il 21 giugno 2012: “schegge impazzite”.
Una domanda a cui non ho avuto mai risposta e che si pose anche la Corte d’appello durante il II° di giudizio che confermò la prima condanna, è questa: “che cosa ci faceva Alpha 3 prima delle chiamate al 112 e al 113 di Chiarelli e Fogli quando le ricostruzioni della polizia, di quella polizia, affermavano che la polizia era arrivata in via Ippodromo per la chiamata di quelle due persone alla centrale operativa della Questura, per una persona che dava in escandescenza”. Quelle grida, ora lo sappiamo erano la conseguenza delle manganellate, sempre ovviamente secondo i giudici, di un’azione improvvida e senza una ragione.
Oltre alla pena di 6 mesi, di una condanna a 3 anni e 6 mesi, a causa del condono offerto loro dall’indulto, non seguì il licenziamento, come mi sarei logicamente aspettato, soprattutto alla luce delle parole pesantissime utilizzate dai giudici di tutti e tre i gradi di giudizio, e che le commissioni disciplinari preposte, destinate a decidere sulla loro permanenza in polizia, nonostante ciò, valutò invece di non destituirle.
Per me, quelle 4 schegge impazzite, così definite da un procuratore della cassazione, anche se ora si sentiranno libere, rimarranno sempre dei pregiudicati, che per il concetto di polizia che mi porto dentro dagli insegnamenti di mio padre carabiniere, non la rappresenteranno mai e poi mai.
In questi anni di lotte abbiamo dovuto sopportare anche offese e querele che come dice Patrizia, in pratica le abbiamo vissute come provocazioni intese a ferirci. Ma i giudici, e anche ultimamente nell’archiviarle, le querele, hanno ristabilito l’equilibrio del diritto, e questo penso sia un bene per tutti.
E’ proprio vero che troppe volte in Italia far valere i propri diritti, è una corsa ad ostacoli e molte persone qui presenti e non, parenti di vittime, di tante altre storie maledette lo sanno benissimo.
Non è raro che a volte le versioni ufficiali scrivano un’altra storia che uccide e uccide ancora, e di casi inquietanti che necessitano di “verità e giustizia”, che sta seguendo l’associazione ACAD (Associazione Contro gli Abusi in Divisa – Onlus), nata per essere un riferimento per chi ne avesse bisogno, su eventuali abusi commessi da persone in divisa, ce ne sono purtroppo tanti. A loro, alle vittime, non può che andare il mio più sincero abbraccio e la speranza che qualcosa possa cambiare a livello legiferante e di prese di posizioni politiche, magari con un risveglio di coscienze. Tengo a precisare e ad evidenziare che nessuno può essere contro la polizia, baluardo insostituibile della legalità e della sicurezza della nostra collettività, ma nello stesso tempo, come disse Roberto Saviano in un suo articolo sul settimanale l’espresso: “chi difende quei colpevoli non può difendere la società”. E specialmente quando accertatene le responsabilità, per quelle persone, inidonee quindi a svolgere il mestiere delicato e prezioso dell’appartenente alle forze dell’ordine, si dovrebbe trovare all’interno dei suoi stessi apparati la forza di utilizzare gli anticorpi, nonostante una forte impunità ed un forte corporativismo purtroppo presenti, espellendole.
Forse sarà utopia pretenderli, ma nella storia di Federico gli anticorpi a contrastare le tossine del sistema ci sono state, anche se con molte difficoltà iniziali, ognuna preziosa nel suo campo a sforzarsi di ristabilire quell’equilibrio di cui parlavo sopra, ognuno nel suo ruolo.
Non faccio nomi, perché sono tantissimi e rischierei di tralasciarne migliaia, e tutti importanti uguali, dalla più alta carica istituzionale fino ad arrivare al cittadino dei sit-in, alle persone del blog, passando per l’informazione. Fu l’inizio di una piccola giustizia che ci portò a restituire a Federico, un giovane cittadino di 18 anni che quella mattina e né mai aveva commesso alcun reato, non la vita, ma dignità e rispetto, quella si.
Nel mio immaginario vorrei tanto che le persone di buona volontà specialmente a livello politico anche nel campo legiferante, nel campo dei diritti e del rispetto della vita, costruissero un qualcosa di importante e giusto nell’interesse del nostro Stato e quindi di noi tutti, specialmente in questi tempi così particolarmente difficili e complessi.
Un piccolo segnale di credibilità, secondo il mio punto di vista potrebbe, in maniera concreta e fattiva, alla luce di troppi casi sotto gli occhi di tutti, venire anche dalla legiferazione di una legge seria sul reato di tortura che l’Europa ci chiede da più di trent’anni, magari senza filtri e senza se e ma. Che paura hanno i poliziotti onesti di questo? Che paura hanno poi i poliziotti di essere identificati quando si chiede a tutti i livelli trasparenza? Ho visto lavoratori in divisa usare il manganello contro altri lavoratori, di cui pochi mesi fa un sindacalista famoso ne fu anche testimone, e questo non può che profondamente rattristarmi. Penso sia un diritto per tutti sapere chi si ha davanti anche se con un numero. Quanti casi assurdi di violenza ingiustificata avrebbero necessitato di sapere chi ti stava picchiando nel nome della legge. Quale legge? Vero Paolo Scaroni?
Paolo Scaroni è qui questa sera e non posso che abbracciarlo. Vi invito a leggere una sua lettera veramente forte e toccante, da lui stesso spedita al ministro degli interni Maroni, qualche anno fa. La sua storia, la sua lettera e il suo evolversi a livello penale la potrete trovare su internet digitando “Paolo Scaroni chiede giustizia”. Dico solo che Paolo Scaroni, ultrass del Brescia calcio, il 24 settembre 2005, il giorno prima dell’uccisione di mio figlio Federico stava tornando da Verona da una partita di calcio e alla stazione fu picchiato dalla celere fino a rimanerne quasi invalido. Da chi non si sa, ma aveva una divisa addosso senza codice identificativo. Paolo scrive che lui la sua storia l’ha potuta raccontare anche se ad un prezzo altissimo. Provate a leggerla e vi farete un’idea su tante cose.
Quante storie maledette, alcune addirittura similari sotto certi aspetti a quella di Federico (vero Riccardo Magherini?), e che non mi stancherò mai di denunciare pubblicamente, anche se vi garantisco che sono molto stanco e vi confesso che vorrei tanto ritrovare la mia intimità di padre per potermi avvicinare in silenzio a quel marmo freddo, dove dietro riposa maledettamente per sempre un ragazzino che probabilmente, se ciò fosse possibile, mi chiederebbe senza averne una risposta: “perché papà?”.
Ricordare Federico ogni anno che serva per dare quel brivido contro i torpori dell’indifferenza e dell’ingiustizia, e per far si di tentare di non perdere quella strada troppe volte interrotta, di quel processo di democratizzazione della polizia, intrapresa faticosamente in questi ultimi decenni da molti suoi appartenenti, e di cui qui questa sera ne riconosco uno, Orlando Botti ex ispettore della polizia di Stato e sindacalista, che viene da Imperia appositamente per ricordare Federico e che ringrazio per la sua presenza fraterna, e che ho avuto il privilegio di conoscere a Genova, quando ogni anno lì si va per non dimenticare i tragici fatti di Genova 2001 e tutte le sue vittime, per un abbraccio particolare ad Haidi e a Giuliano, e che Amnesty International definì “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.” Quest’anno poi ricordo a tutti,per non dimentiCarlo, che la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti, Arnaldo Cestaro, per la tristemente nota irruzione della Diaz, ma anche perché inadempiente ad avere una legislazione adeguata a punire il reato di tortura come pure l’istituzione dell’obbligo del numero identificativo sulle divise degli agenti. Ciò, afferma la stessa Corte, impedì di fatto l’identificazione degli autori dei maltrattamenti e l’impunità degli stessi. Quello che mi viene da dire di getto agli addetti ai lavori, è che mancarono le commissioni d’inchiesta, e qui mi fermo.
Concludo questo mio intervento, scusandomi per la sua lungaggine, dicendovi un’ultima cosa:
Federico era solo un bambino, perché a 18 anni non si può essere considerati adulti, e che tra l’altro mi chiedeva ancora, prima di uscire di casa, se doveva mettere o meno il giubbino di jeans per il freddo che c’era fuori.
Ora se mi sentisse gli risponderei così: “Si Federico, di freddo ce n’è veramente tanto fuori, anche se sono passati dieci anni da quell’assurda domenica mattina, ma noi cercheremo nel nostro piccolo, di fare in modo, attraverso il calore di tanti cuori di farti sentire solo amore e la forza della ragione, magari da donare soprattutto ai figli che ci sono intorno e che sono vivi, affinchè la nostra memoria, perché no, sia per sempre la condanna di chi ti uccise senza una ragione”.
Lino