Arrivato ad Avellino pochi mesi prima del terremoto del 1980, le esultanze di Juary divennero il simbolo della rinascita di un’intera città
di Carlo Perigli
La diffidenza, l’attesa, poi la gioia, la consacrazione di un rapporto empatico formatosi a ritmo di samba intorno alla bandierina. Nel mezzo, si impone la tragedia, la catastrofe. La sera del 23 novembre 1980 al terremoto basta poco più di un minuto per devastare l’Irpinia. Per uccidere, per cancellare vite e storie, per, come raccontò Moravia, trasformare abitazioni in nidi di vespe. In quell’inferno, dimenticato tanto da Dio quanto dall’uomo, che forse non ritenne utile attuare i regolamenti di esecuzione previsti dalle leggi, nè mettere i centri di soccorso immediato nelle condizioni di operare, c’era anche lui, Juary, brasiliano per nascita e avellinese per caso, figlio di uno strano giro di mercato che l’aveva portato in Irpinia con la riapertura delle frontiere pallonare.
Così, mentre in estate i grandi club acquistavano i vari Falcao, Krol, Bady e Prohaska, l’Avellino, che ai nastri di partenza si presentava concinque punti di penalizzazione comminati per lo scandalo del totonero, investiva ottocento dollari per acquistare Juary Jorge dos Santos Filho, attaccante del Guadalajara. Un brasiliano sconosciuto in arrivo dal campionato messicano? Un curriculum decisamente poco entusiasmante, all’apparenza insufficiente per colmare il gap aritmetico e qualitativo con le altre squadre. Resta scettico anche Antonio Sibilia, l’a dir poco controverso presidente degli irpini, che in caso di scarso rendimento si dice pronto a rimandare in Brasile sia l’attaccante che l’allenatore Luis Vinicio, che tanto aveva spinto per portarlo ad Avellino.
Che poi, a dirla tutta, i dubbi sono decisamente ricambiati. Al suo arrivo in Italia, Juary non ha la benchè minima idea di dove si trovi Avellino. Anzi, a volerla raccontare per bene, al suo arrivo in aeroporto l’attaccante ha appena saputo che in quella città si trova la sua nuova squadra, dopo che i dirigenti l’avevano convinto a mettersi in viaggio con la scusa di portarlo a visionare alcuni giocatori.
Insomma, la complicata salvezza dell’Avellino è affidata a questo minuto (un metro e sessantotto per sessantaquattro chili) attaccante brasiliano, la cui esperienza si esaurisce con una convocazione per la Copa America l’anno precedente e la sua presenza nell’ultima partita di Pelè con la maglia del Santos). Ma la Serie A all’inizio degli anni ’80 è tutt’altra cosa, e il credito riservato al brasiliano è decisamente scarso. Lo scetticismo, tuttavia, è destinato a dissolversi il 31 agosto, quando l’esordio stagionale vede l’Avellino affrontare il Catania in Coppa Italia. Quello che va di scena al Partenio è un vero e proprio colpo di fulmine: al 6′ della ripresa, con il risultato fermo sul 3-1 per gli irpini, Juary prende palla al limite dell’area, passa in mezzo a tre difensori, salta il portiere e deposita la sfera in rete. È solo l’anteprima di uno spettacolo che Juary propone all’altezza del calcio d’angolo, girando per tre volte intorno alla bandierina a ritmo di samba. Un’esultanza che fa parte del repertorio del brasiliano da sempre, ma che in Italia nessuno ha visto mai, abituati ai canonici abbracci tra i compagni.
Finchè una sera la terra inizia a tremare, devastando vite e abitazioni, insieme alle certezze sulla presenza delle istituzioni vicine e lontane, manifestatesi soltanto con la sincera indignazione di Sandro Pertini. Il campionato non si ferma neanche per un giorno, giusto un minuto di silenzio. Poi basta, il pallone deve rotolare. Mancanza di sensibilità, si, anche se col senno di poi quella decisione fu determinante per la rinascita di Avellino. Così, mentre, come spesso capita, qualcuno “ballava” sopra le macerie, la città cercava di ritrovare la sua identità violata attraverso il calcio, l’unica fonte di gioia possibile all’interno di uno scenario apocalittico. Perchè, da quel momento, la permanenza dell’Avellino in Serie A da speranza sportiva si trasforma in una voglia disperata di riscatto, nell’unico modo per evadere, per andare oltre le macerie. Così, racconta Salvatore di Somma, all’epoca difensore dei biancoverdi, “una signora, a piazza Libertà, mentre piangeva i suoi cari mi disse “Salvatore, hai visto che successo? Però oggi che bella vittoria abbiamo fatto“.
Ed ecco così che Juary, da perfetto sconosciuto, si trasforma nel talismano del popolo irpino. In quel momento lui è l’uomo giusto nel posto giusto. E la sua danza, semplice, spontanea, intimamente infantile, diventa una dolce valvola di sfogo, il modo migliore per ritrovare il sorriso novanta minuti a settimana, per evadere dalla quotidianità a ritmo di samba. Quell’esultanza collega il Brasile all’Irpinia, portando Juary ad identificarsi con quella che ormai considera la sua gente. «Se mi sento avellinese a tutti gli effetti – dichiarerà più avanti – è perché ho vissuto quel disastro e ho sofferto con la gente del posto». Lascerà Avellino alcuni anni dopo, per poi ritrovarsi a decidere una finale di Coppa Campioni con la maglia del Porto. Eppure, se un giorno lo doveste incontrare, chiedeteglielo: «Juary, cos’è stato più emozionante, segnare al Prater contro il Bayern oppure vedere esultare i tifosi ad Avellino?». Pur non conoscendolo di persona, non avrei dubbi: per il brasiliano che istintivamente balla quando esulta, che vive il calcio con la leggerezza di un gioco e la serietà di un mezzo utile a ridare entusiasmo, la risposta è scontata.
Juary, il samba dei Lupi oltre le macerie
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