Impressionisti al Vittoriano, un tête-à-tête poco impressionante. La faccia classica di un movimento innovatore
di Maurizio Zuccari
Rifiuto d’ogni tradizione, pittura all’aria aperta (en plein air), mito dell’artista scapestrato e insofferente d’ogni convenzione. Questi, in pochi tratti, i punti chiave dell’impressionismo. Una corrente che permeò di sé la pittura dell’Ottocento, tenendo banco nella Francia della seconda metà del secolo, dal Salon des refusés inaugurato da Napoleone III, ai primi decenni del nuovo secolo, dopo aver ramificato in tutta Europa. Quando finì per essere sopravanzata da ben altre avanguardie. Da allora l’impressionismo e i suoi variegati interpreti non hanno cessato d’appassionare (impressionare?) il vasto pubblico, finendo per divenire uno standard pittorico.
Un buon esempio di tale classicismo è nella mostra aperta al Vittoriano di Roma: Impressionisti, tête-à-tête dal Musée d’Orsay. Manet, Renoir, Degas, Bazille, Pissarro, Cézanne, Morisot: questi, tra gli altri, gli artisti presenti nell’esposizione che, forte di una sessantina di opere traslate dal museo parigino, prende in esame sessant’anni di pittura francese, dalla seconda metà dell’800 alla fine della prima guerra mondiale. Il ritratto che emerge della società parigina del tempo e della corrente pittorica che lo dominò, tutto è fuorché naturalista e antiaccademico. La rassegna curata da Xavier Rey e Ophélie Ferlier mette in luce semmai quanto di tradizionale può trovarsi nel testa a testa fra impressionisti, al di là di ogni decantata sovversione della pittura canonica. Non c’è alcuna rivoluzione dello sguardo, nessuna nuova pittura, nulla vi è di più classico delle tele esposte, al punto da apparire anticaglie pittoriche i corifèi dell’innovazione. A partire dal manifesto della rassegna, quel Balcone di Édouard Manet dove, tra l’inferriata d’un verde brilloso e l’ombrellino in tinta della compagna all’impiedi sullo sfondo oscuro, con tanto d’ortensia in capo, spicca in primo piano il bel faccino di Berthe Morisot, esponente femminile e musa del gruppo, sposa di Eugène, fratello di Édouard.
Ben altra corposità (verità?) è semmai nella Robe rose, di Frédéric Bazille, del ’64, dove l’abito rosa della figura seduta spicca nella luminescenza del paese a fondale, paesaggio dorato dove la donna offre le spalle allo spettatore per perdersi, con questi, nell’atmosfera sognante da strapaese. Tra le tele più interessanti in mostra, assieme al ritratto della vedova Proudhon di Gustave Courbet, di poco posteriore. A riprova di quanto anche chi aveva scandalizzato come pochi i benpensanti del proprio tempo, con opere come Colazione sull’erba o L’origine del mondo, potesse assurgere a interprete della tradizione. E questo è, forse, il merito maggiore della mostra al Vittoriano. Mostrare l’altra faccia dell’impressionismo. Assai poco impressionante. Fino al 7 febbraio 2016; info www.comunicareorganizzando.it.