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Emiri e sovrani d’Arabia, il terrorismo “islamico” e il Ponte di Messina

Tutti insieme contro il terrorismo, come già in Afghanistan e Iraq: le “vittime” dell’Occidente e i sostenitori-finanziatori dei “carnefici” del Medio oriente

di Antonio Mazzeo

 

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Proclami di guerra contro il “terrorismo islamico”; Ue, Usa, Russia e Nato tutti insieme contro il Califfato in partnership con Arabia Saudita. Emirati, Qatar e Kuwait. Tutti insieme, come già in Afghanistan e Iraq: le “vittime” dell’Occidente e i sostenitori-finanziatori dei “carnefici” del Medio oriente. In attesa dei bombardamenti italiani, utile riportare alla memoria quanto scrivevo sull’Arabian Connection, più di 5 anni fa nel volume “I Padrini del Ponte”.

Avrebbe avuto legami con le organizzazioni dell’estremismo religioso Sheikh Kalifa Bin Zayed Al Nahyan, l’emiro di Abu Dhabi (morto nel 2006). Affascinato dal misticismo islamico e credente nel destino divino della propria famiglia, negli anni Sessanta Sheikh Kalifa Bin Zayed visitò il Beluchistan pakistano sotto la protezione di un anziano funzionario dei servizi segreti di quel paese, tale “Awan”, che lo mise in contatto con molti dervisci e mistici locali. Fu proprio grazie a questi contatti che l’emiro di Abu Dhabi incontrò in Pakistan l’uomo d’affari Agha Hassan Abedi, divenendone grande amico e collaboratore finanziario. Abedi è il fondatore della Bcci, la Bank of Credit and Commerce International, più nota come Criminal Bank, per diversi anni il più importante centro di “lavaggio” del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata dalla Cia per la conduzione di operazioni clandestine a favore dell’ex alleato Saddam Hussein, del dittatore pakistano Mohammed Zia, della Contra nicaraguese e della resistenza islamica all’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Grazie all’amicizia con il potente emiro Zayed Al Nahyan, che la Bcci ebbe la possibilità di aprire tre filiali negli Emirati Arabi Uniti, una delle quali proprio ad Abu Dhabi.

Il pakistano Agha Hasan Abedi è, a sua volta, uno dei più importanti soci del miliardario saudita Adnan Khashoggi, noto mercante d’armi e, nei primi anni Ottanta, intermediario per conto dell’amministrazione Usa del trasferimento di strumenti di guerra a favore del governo “nemico” di Khomeiny. Il rapporto del Senato sull’affaire Bcci, lo definisce letteralmente come “uno dei contatti chiave per l’intelligence degli Stati Uniti in Medio Oriente”. Oliver North, il tenente colonnello dei marines che coordinava le forniture d’armi clandestine, si avvalse nel 1986 di Khashoggi per far giungere componenti missilistiche alle forze armate iraniane. Determinante fu il ruolo del saudita nelle vendite di armi all’Argentina, orchestrate negli anni della dittatura militare dal cosiddetto “Comitato di Montecarlo”, vera e propria filiale internazionale della loggia P2. Ma Adnan Khashoggi è stato pure ritenuto dall’Interpol come uno dei principali terminali internazionali delle organizzazioni che gestiscono i traffici di droga, l’investimento delle tangenti e delle estorsioni, lo spionaggio. Nella sua inchiesta su armi e droga, il giudice Carlo Palermo aveva ricostruito i legami affaristici tra il miliardario saudita, il faccendiere piduista Francesco Pazienza, il finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein e l’imprenditore palermitano Maurizio Mazzotta, poi implicato nella vicenda Calvi-Banco Ambrosiano.

Dati i legami con l’entourage della famiglia reale saudita, gli affari migliori di Khashoggi sono consistiti nel trasferimento di tecnologie militari occidentali agli Stati arabi del Golfo. Vicini a lui erano il cognato di re Faisal d’Arabia, Kamal Adham, ex direttore della Bcci ed uomo di vertice dei servizi segreti sauditi, e Gaith Pharaon, consigliere del sovrano e fondatore con Assan Abedi della Criminal Bank. Anche Gaith Pharaon è un personaggio noto in Italia: a fine anni Ottanta, dopo essere stato implicato in un presunto trasferimento di componenti nucleari alla Libia, acquisì una consistente quota del pacchetto azionario dell’allora Montedison diretta dal socialista Mario Schimberni. Quest’ultimo aveva accumulato fondi neri per un valore di mille miliardi di lire presso società con sede a Curaçao, Antille olandesi.

Importante partner del regime dell’Arabia Saudita, perlomeno sino agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, era il Saudi Binladin Group (Sbg), il colosso finanziario della famiglia bin Laden operante nei settori delle costruzioni, della distribuzione, delle telecomunicazioni e dell’editoria. Fu grazie all’amicizia personale con il re Abdulaziz Al Saud, fondatore del regno saudita, che fu accumulato un immenso patrimonio finanziario da Mohammad bin Laden, il patriarca della famiglia morto negli Stati Uniti in uno strano incidente aereo. Amico personale di re Fahd (recentemente scomparso) era pure il primogenito Salem bin Laden, succeduto al padre nella conduzione della holding, ed anch’egli vittima nel 1988 di un incidente aereo in Texas, dove si era recato per trattare affari con George Bush senior.

Amministrato da Bakr bin Laden, fratello del più noto Osama, il Saudi Binladin Group è stato per lungo tempo il principale cliente della famiglia regnante dell’Arabia Saudita per la costruzione e l’amministrazione dei luoghi santi del mondo islamico. La controversa famiglia bin Laden ha aderito al “wahhabismo”, il movimento rigorista sunnita diffusosi in Medio oriente nel XVIII secolo e rilanciato dai regnanti sauditi nel Novecento. A partire dagli anni Settanta, l’Arabia Saudita ha investito somme notevoli per l’esportazione del pensiero wahhabita, dando vita a una pluralità di movimenti islamisti radicali nell’area afghano-pakistana, in Caucaso ed Asia centrale e nel Sud-est asiatico.

I bin Laden sono stati tra i principali investitori della Al-Shamal Islamic Bank, utilizzata dal principe Mohamed Al-Faisal Al-Saud per finanziare i principali movimenti wahhabiti internazionali. I bin Laden sono pure azionisti di un altro istituto bancario filoradicale, la Dubai Islamic Bank di Mohamed Khalfan ben Kharbarsh, ministro delle finanze saudita.

Nonostante la forte connotazione pro-islamica, il Saudi Binladin Group si è affermato nei maggiori mercati azionari mondiali, conseguendo partecipazioni in imprese statunitensi, canadesi ed europee, come ad esempio General Electric, Motorola, Nortel Networks, Iridium, Unilever, Quaker e Cadbury Schweppes. La holding dei bin Laden ha ottenuto il controllo della Forship Ltd, una delle maggiori società mondiali per i trasporti a nolo, operativa in Gran Bretagna, Francia, Egitto e Canada.
Rilevanti infine i vincoli con alcuni dei maggiori gruppi finanziari transnazionali: il Saudi Binladin Group ha infatti operato congiuntamente con Goldman & Sachs, Citigroup, Deutsche Bank ed Abn Amro. Goldman & Sachs, a seguito dell’uscita di Gemina da Impregilo, ha acquisito il 2,84% della società di Sesto San Giovanni; inoltre controlla l’8% circa dell’holding finanziaria Sintonia Sa, il cui azionista principale è Edizione Srl della famiglia Benetton, tra gli azionisti di rilievo della società general contractor del Ponte sullo Stretto. Abn Amro, dopo essersi offerta di finanziare la realizzazione del Ponte, nel gennaio 2008 ha accettato la richiesta di Igli (la finanziaria di controllo d’Impregilo, formata dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti) di rastrellare sul mercato il 3% delle azioni della società di costruzioni. Igli si è riservata l’opzione di acquisire questo pacchetto; in caso contrario Abn Amro deciderà se restare nella società oppure trasferire a terzi le azioni. La banca olandese, proprietà di una holding che vede la partecipazione, tra gli altri, del Banco Santander Central Hispano S.A. e della Royal Bank of Scotland, è pure azionista di Unicredit (1,9%), che detiene, a sua volta, poco meno del 2% del pacchetto azionario di Impregilo. Coincidenza vuole che nel luglio 1993 la filiale Abn Amro in Italia sia finita sotto i riflettori degli ispettori della Banca d’Italia per una serie di finanziamenti “non corretti sotto il profilo degli adempimenti previsti dalla normativa antiriciclaggio e bancaria italiana”. I finanziamenti erano finalizzati alla copertura assicurativa delle attività imprenditoriali estere di Rosario Spadaro e Vincenzo Bertucci, prima fra tutte la sfortunata realizzazione dell’aeroporto di Sint Maarten.

Kabul-Messina la rotta dei capi dei servizi segreti

Ci sono però ben altre vicende in cui gli interessi dei congiunti dell’uomo più ricercato del pianeta s’incrociano con le operazioni speculative dei signori del Ponte. Yeslam bin Laden, altro fratello di Osama, compare alla guida della Saudi Investment Company (Sico), società finanziaria creata nel maggio 1980 a Zurigo con lo scopo di amministrare una parte dei profitti del Saudi Binladin Group. Grazie alla Sico i bin Laden hanno eseguito i lavori di ristrutturazione delle moschee della Mecca e Medina, e costruito aeroporti, autostrade, centrali elettriche e palazzi in Arabia Saudita, Cipro, Giordania e l’immancabile Canada. Una sezione periferica della Sico ha sede a Curaçao, isola delle Antille olandesi dove Saro Spadaro e il socio italoamericano Edward Goffredo Cellini si sono occupati della gestione di alcuni hotel con annessi casinò.
La Saudi Investment Company è pure una delle società sospettate di essere stata utilizzata dalla Cia per finanziare la resistenza afghana, quando l’ancora giovane Osama bin Laden era il fedele alleato di Washington nella lotta contro gli occupanti sovietici. Da comandante dei mujahidin in Afghanistan, bin Laden aveva ottenuto ingenti finanziamenti da re Fahd e dai servizi segreti pakistani. Il suo diretto referente era al tempo il principe Turki bin Faisal al-Saud (uno dei figli di re Faisal nonché nipote dello stesso re Fahd), per oltre vent’anni a capo dei servizi segreti sauditi, da cui venne misteriosamente esautorato il 31 agosto 2001, undici giorni prima cioè dell’offensiva terroristica contro l’America. Sarebbe stato proprio il suo antico e solido legame di amicizia con Osama bin Laden la causa dell’improvvisa uscita di scena di Turki bin Faisal, su pressione degli Stati Uniti. Eppure il principe si era costruito una solida reputazione di professionalità ed efficienza nella conduzione dell’intelligence saudita. Considerato uno dei più brillanti strateghi politico-militari della famiglia regnante, dal 1977 era stato il principale anello di congiunzione tra i servizi segreti arabi filo-occidentali e gli omologhi di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Fu così che Turki bin Faisal divenne “l’uomo di contatto” per le operazioni saudite (e statunitensi) in Afghanistan e nell’Asia Centrale dopo l’invasione sovietica del 1979. Nel corso degli anni Ottanta, il capo dei servizi segreti incontrò più volte Osama bin Laden per convincerlo a sostenere la lotta contro l’occupazione sovietica. Nel 1993 il principe Turki fece persino da mediatore tra le differenti fazioni in guerra in Afghanistan.
Stando a Turki bin Faisal, le sue relazioni con Osama bin Laden si sarebbero interrotte nel momento in cui quest’ultimo fu dichiarato “nemico pubblico” di Riyadh e gli fu cancellata la cittadinanza saudita. Sembra invece che il principe Turki visitasse regolarmente il quartier generale di Kandahar dove vivevano Mullah Mohammed Omar e Osama bin Laden almeno fino al 1996, anno in cui i Talibani conquistarono Kabul. Secondo il periodico francese Paris Match, i servizi segreti sauditi sarebbero però rimasti in contatto con i leader di Al Qaeda sino al fatidico 11 settembre 2001. Presso l’ambasciata saudita a Kabul funzionava infatti un servizio di logistica destinato ai combattenti di Al Qaeda. A occuparsene, la fondazione al-Haramain, promossa e finanziata da ambienti wahhabiti e dalla famiglia reale saudita. Per tutto questo i familiari delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle hanno promosso una causa civile contro Turki bin Faisal ed il principe Sultan bin Abdul Aziz al-Saud, ministro della difesa saudita, richiedendo un risarcimento multimilionario per aver “finanziato direttamente, con banche e associazioni caritative, i terroristi coinvolti negli attacchi”. Nonostante i suoi discutibili trascorsi, l’ex capo dei servizi è stato nominato nel 2005 ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington.
Ancora più incredibile invece la storia dell’uomo chiamato a sostituire Turki bin Feisal ai vertici dell’intelligence saudita, undici giorni prima, ripetiamo, dell’attacco aereo ai grattacieli di New York. Si tratta del principe Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud, zio del suo precedessore, figlio di re Abd al-Aziz e fratello del principe Abdullah, oggi sovrano d’Arabia. Fresco di nomina, Nawaf bin Abdul Aziz partecipava il 19 settembre 2001, in compagnia di Abdullah, ad un summit a Riyadh con i vertici dei servizi segreti pakistani rientrati da una missione in Afghanistan finalizzata a “neutralizzare” Osama bin Laden e “disfarsi” del regime dei Talibani. Il summit seguiva una misteriosa visita lampo che il principe Abdullah aveva effettuato in Pakistan il 22 agosto 2001. Secondo l’accreditato periodico Asia Times, il saudita, in compagnia dei capi dei servizi segreti pakistani, si sarebbe incontrato con il leader Mullah Omar per “tentare di convincerlo che gli Stati Uniti erano prossimi a sferrare un attacco in Afghanistan”; era pertanto opportuno che bin Laden raggiungesse l’Arabia Saudita “dove sarebbe stato tenuto in custodia senza possibilità di essere consegnato a paesi terzi”. Sempre secondo Asia Times, Abdullah, definito un “segreto supporter di bin Laden”, si sarebbe mosso proprio con l’obiettivo di salvare il leader di Al Qaeda. La proposta sarebbe stata tuttavia rifiutata da Mullah Omar.
L’epilogo è noto. Dopo aver sostituito il pluridecennale capo dei servizi segreti con un congiunto senza alcuna esperienza d’intelligence, l’Arabia Saudita è divenuta una fedele partner degli Stati Uniti nella lotta a bin Laden e nella caccia agli estremisti islamici. Un ruolo pagato caro, dato che il Paese si è trasformato in uno dei bersagli privilegiati del terrorismo di marca islamica. Nel solo biennio 2003-2004 l’Arabia Saudita è stata vittima di ventidue attentati nei quali sono stati uccisi novanta civili e trentanove poliziotti.
Ricordate gli “amici” arabi che dovevano intervenire a soccorso di mister Zappia per contribuire al finanziamento del Ponte sullo Stretto di Messina? Interrogato dai magistrati romani, l’ingegnere italo canadese ha fatto riferimento ad un misterioso principe saudita. Per Il Giornale si tratterebbe di Bin Nawaf bin Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia. Se non fosse per un bin di troppo e una leggera difformità nella trascrizione del nome, si potrebbe giurare che si tratti dello stesso Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud assunto a capo dei servizi segreti sauditi alla vigilia dell’11 settembre. O, eventualmente, di uno dei suoi più stretti congiunti. Un altro strettissimo familiare del “principe”, Mohammed bin Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud, ha ricoperto dal 1995 al 2005 l’incarico di ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia e Malta. Nel settembre 1997 Mohammed bin Nawaf coordinò la visita ufficiale in Italia dell’allora vice primo ministro e capo del dicastero della difesa e dell’aviazione saudita, principe Sultan bin Abdul Aziz Al Saud. Premier Romano Prodi, l’Arabia Saudita si affermò in quell’anno come il principale destinatario dell’export di armi “made in Italy”. Successivamente il diplomatico è stato destinato a rappresentare il regime arabo in Gran Bretagna ed Irlanda, sostituendo proprio l’ex capo dei servizi segreti Turki ben Al Feisal.

Da “I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo Stretto di Messina”, Alegre edizioni, Roma, 2010

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