La manifestazione Fiom non è stata all’altezza delle aspettative. Di coalizione sociale nemmeno l’ombra. Perché l’autunno è così freddo, perché non ci sono grandi mobilitazioni in Italia contro il governo dell’austerità e della guerra?
di Fabrizio Burattini
E’ dal 1969 che la stagione dell’autunno, nella sinistra e nel sindacato, viene associata all’aggettivo “caldo”. Effettivamente l’autunno di quell’anno fu caldissimo nei posti di lavoro e nel paese. Grandi mobilitazioni, cortei, scioperi iniziarono a trasformare il mondo del lavoro del nostro paese e a creare una situazione inedita in numerosissime fabbriche.
Ma anche gli autunni degli anni successivi, seppure con una intensità e una forza via via calanti, furono anche esse stagioni socialmente e sindacalmente calde.
E questo non a caso.
L’autunno è la stagione del rientro, quando buona parte delle lavoratrici e dei lavoratori, ritemprati da qualche settimana di riposo (sempre troppo poche, comunque) rientra nel posto di lavoro e riscopre la violenza e la pesantezza del lavoro alienato, ma è anche
la stagione del rientro a scuola, quando studenti e studentesse, ancora non intimoriti dalle verifiche scolastiche, scoprono la bellezza del lottare uniti, in difesa della scuola pubblica, del diritto allo studio, delle loro condizioni di vita e delle loro prospettive future.
E nella politica è la stagione in cui, più che in ogni altro momento dell’anno, si riconferma la politica delle classi dominanti e dei loro governi, è la stagione delle leggi finanziarie (o “di stabilità”, come si usa dire recentemente), con i loro tagli allo stato sociale e ai servizi.
Non a caso, è nella stagione autunnale che i sindacati, anche quelli concertativi, se non altro per nascondere la loro pratica di sostanziale acquiescenza con le controparti, hanno sempre indetto scioperi generali, manifestazioni.
Magari si trattava di scioperi testimoniali, finalizzati non tanto ad impedire l’azione antipopolare del governo, quanto a fornire attestazione dell’esistenza in vita delle organizzazioni sindacali stesse, a rivendicare almeno uno strapuntino al tavolo in cui le scelte di politica economica e sociale venivano compiute.
Ma quest’anno 2015, questo autunno 2015, diversamente dai precedenti, non merita proprio di essere chiamato caldo. E non certo perché lavoratrici e lavoratori non abbiano motivi sufficienti per inquietarsi e aver bisogno di surriscaldare un po’ l’aria.
Il clima nelle aziende è sempre più pesante; nonostante la proclamata “ripresa”, la disoccupazione resta a livelli da record e, anche per chi ha il “privilegio” di lavorare, il mantenere la famiglia e un livello di vita dignitoso e accettabile risulta sempre più difficile. Inoltre i contratti e i minimi salariali di milioni di lavoratori di tante categorie sono in scadenza o bloccati da anni, e sottoposti alla minaccia delle associazioni padronali che vogliono riscriverli, peggiorati nelle normative, deprezzati nelle retribuzioni, svalorizzati nel loro ruolo di strumento di unità di classe.
E la legge di stabilità presentata da Renzi, che fissa i termini per il bilancio pubblico del prossimo anno, non è meno antipopolare di quelle degli anni precedenti. Qui non lo approfondiamo (lo facciamo in altra parte del giornale), ci limitiamo a ricordare che, in quella legge, il governo, in quanto “datore di lavoro” per 3 milioni di dipendenti pubblici, stanzia una cifra capace di elargire per l’incremento delle loro retribuzioni meno di 10 euro lordi.
Eppure per nessuna categoria di lavoratori (salvo l’encomiabile eccezione delle lavoratrici e dei lavoratori della grande distribuzione, chiamati ad astenersi dal lavoro nel fine settimana del 7-8 novembre) è stato proclamato uno sciopero dalla Cgil (né, ovviamente, da Cisl e Uil). E, tanto meno, è passata per la testa del gruppo dirigente confederale l’idea della necessità di uno sciopero generale.
Occorre dire che perfino i sindacati di base, a differenza di quanto fatto in numerose occasioni negli anni scorsi, si sono astenuti dal proclamare iniziative di sciopero generale, salvo alcune iniziative settoriali, per di più in ordine sparso, come lo sciopero dei lavoratori della logistica, proclamato dal Si Cobas per il 29-30 ottobre, quello della scuola di Cobas, Unicobas e Cub del 13 novembre e quello dell’USB del pubblico impiego del 20 novembre, peraltro sottoposto ad un vergognoso e assurdo attacco da parte della questura di Roma con un incostituzionale divieto a manifestare.
A volte, per gli apparati sindacali, lasciare lavoratori e lavoratrici senza alcuna possibilità di espressione del loro disagio può essere pericoloso. Allora li si fa sfilare di sabato, senza sciopero, come accadrà quest’anno il 21 novembre ai metalmeccanici della Fiom e il 28 ai dipendenti pubblici.
*editoriale de L’Anticapitalista n.4