Intervista ad un mediatore culturale che da anni è impegnato nell’accoglienza e nel supporto ai migranti in Sicilia, all’interno di una delle più conosciute Organizzazioni non governative
di Giampaolo Martinotti Reportage fotografico da Ventimiglia di Lucia Casone
Ogni giorno vi trovate, con i tuoi colleghi, a interagire con persone che pur di lasciare il proprio paese affrontano viaggi di estrema pericolosità, rischiando la propria vita. Possiamo parlare di immigrazione o di un fenomeno di “fuga” verso l’Europa? È possibile parlare di entrambi, ma c’è una bella differenza tra migrare e fuggire. Il migrare è qualcosa di intrinseco nell’essere umano, fa parte del suo codice genetico. L’uomo è nato spostandosi, sente il bisogno di scoprire, di trovare nuovi spazi e ambienti che possano dargli una prospettiva e un “bagaglio” personale più forti. Quindi l’essere umano cerca, e dunque valorizza se stesso, mettendosi in discussione, confrontandosi, rispondendo a certe domande. E, probabilmente, il migrante vivrà in modo diverso dalle persone che non hanno fatto la stessa esperienza di movimento. Ma fuggire dalle bombe, dalla miseria, dalla fame, scappare da chi vuole torturare e assassinare te e la tua famiglia, è un’altra cosa. I superstiti che vediamo tutti i giorni, anche sui canali televisivi, sono persone che sono state spinte a scappare, sono state obbligate a lasciare le proprie case rischiando comunque la morte. Questa è un’immigrazione non voluta, questa è una fuga dai conflitti e dalla terribile minaccia di regimi che usano la guerra come strumento di potere. A proposito di conflitti e miseria, i paesi occidentali hanno un peso per quanto riguarda un certo tipo di dinamiche destabilizzanti? Diciamo pure che storicamente i paesi occidentali hanno avuto un ruolo centrale nella destabilizzazione della maggior parte dei paesi dai quali provengono i flussi migratori attuali. Basta pensare alla storia del colonialismo europeo in Africa, che ancora oggi si ripete in modalità diverse. Se si creano “problemi” geopolitici o di altra natura i paesi occidentali sono sempre pronti ad intervenire, assumendo un carattere di autorità nei confronti di società meno sviluppate a livello economico, ma con risorse importanti. È l’oppressore che va in aiuto dell’oppresso diciamo. L’Italia è tra i più importanti esportatori di armi al mondo ed è tra i responsabili del disastro libico. Senza parlare del ruolo dell’ENI in alcuni paesi della zona. Il governo italiano ha la volontà concreta di trovare soluzioni mutuali e durature? Innanzitutto diciamo che, purtoppo, il testo unico sull’immigrazione è molto complesso, tanto da risultare confuso. È un testo che viene interpretato in maniera diversa da regione a regione, anzi, da questura a questura. E ne consegue una certa confusione per quanto riguarda lo status del migrante che per una certa autorità può essere un “rifugiato”, poi spostandosi può divenire un “richiedente asilo”. E pensare che non c’è neppure una prassi ben chiara sulle modalità di richiesta di asilo da parte del migrante! L’Italia non ha mai avuto un organo di competenza per dare un’identità a una parte di popolazione che è nella mani di una “interpretazione”. Questo è un testo nel quale non s’intende avviare un processo di stabilizzazione del migrante, che diventa vittima di una politica che non ha intenzione di integrarlo nel tessuto sociale. È un documento che si basa sulla permanenza in Italia del migrante per motivi di lavoro. E dunque anche un “immigrato” che vive in Italia da dieci anni per motivi di lavoro, se perde quel lavoro gli viene tolto il permesso di soggiorno e diventa un clandestino. Genitori “immigrati”, con figli nati e cresciuti in Italia, che vengono messi a rischio “clandestinità”! L’Italia non ha mai valorizzato l’immigrazione, anche se è un fattore antico nella sua società. Questa è una partita che si gioca con la politica dell’emergenza, così da poter attivare “progetti emergenziali”, non so se mi spiego… Cosa intendi per politica dell’emergenza? La politica nella quale l’immigrato è soggetto ai finanziamenti, cioè ai “progetti di integrazione”, termine utilizzato per definire i fondi europei verso l’integrazione. Parliamo delle azioni di una minoranza, chiamata politicamente intellettuale, che favorisce i propri interessi lasciando l’immigrato sempre all’ultimo posto. La “politica di accoglienza” in generale è sempre stata pilotata dallo Stato ma pianificata e srutturata dalle organizzazioni umanitarie chiamate non governative o associazioni senza fine di lucro, cooperative sociali o consorzi, enti di privato sociale. Queste entità hanno tutte la propria appartenenza, anche politica naturalmente, e il proprio metodo. Non esiste un coordinamento e la maggioranza dei progetti sono solitamente pensati e decisi da gruppi ristretti, non tenendo in considerazione le esigenze del migrante. Si pianifica il livello assistenziale e si compiono delle azioni che non avviano un vero processo di integrazione sociale. Progetti, e fondi, nazionali, internazionali, europei: alcune entità si travestono da Ong volontarie, altre hanno già ottenuto un mandato per la realizzazione di svariati progetti ma non esistono neppure, altre ancora sono presenti sul territorio e agiscono a modo loro; i progetti tanto non sono supervisionati. E non dimentichiamo che si “incassa” di più in “alta stagione”. L’accoglienza è un business da sfruttare sul “modello Cara di Mineo”? Certamente! L’accoglienza è un vero e proprio business, e non lo è diventata adesso. Lo è divenuta a tutti gli effetti dall’inizio della Primavera araba, nel 2011, quando sono state aperte proprio le strutture tipo il Cara di Mineo. Questi centri rientrano all’interno di piani strutturati con i quali alcuni enti si sono arricchiti. Alcuni di quegli enti oggi decidono il futuro e il progetto di vita degli immigrati. Tantissime persone si trovano a dipendere da chi ha interesse nel creare delle situazioni di “patologia assistenziale”. Per esmpio, i migranti che vivono ancora nel Cara di Mineo a due anni di distanza dall’esaminazione del proprio stato di rifugiati non riescono a staccarsi da questo progetto assistenziale perchè gli viene impedito: ti teniamo fermo nel centro senza fornirti alcuna attività, ti diamo da mangiare, le sigarette, la scheda telefonica per chiamare a casa, ecco qua. Intanto sulla tua permanenza giornaliera guadagnamo i 2/3 della quota versata su di te. Queste persone sono “parcheggiate”, senza avere la possibilità di fare formazione, senza neppure capire dove sono e dove vogliono arrivare. Non ci sono controlli e loro non hanno alcun tipo di alternativa perchè il sistema non li vuole rendere partecipi di un progetto migratorio reale. Questi migranti sono le vittime di un sistema di business europeo fraudolento. E non parliamo dei minori egiziani svaniti nel nulla: a giugno del 2015 il Ministero del lavoro, salute e politiche sociali ne aveva “contati” poco meno di duemila; oggi sappiamo che più di mille e duecento di loro sono scomparsi senza lasciare traccia… Credi che il razzismo e la xenofobia siano anche alimentati dalle sciagurate politiche di austerità che si sono abbattute sui popoli d’Europa? Certo. Direi che il razzismo e la xenofobia sono sempre stati molto legati ai fattori politici che condizionano la società e la vita dei cittadini. Il razzismo è la benzina che la politica populista getta sul fuoco, al fine di alimentare un conflitto tra cittadini, persone di colore o culture diverse, utile per la difesa degli interessi di una certa minoranza. Con il crollo dell’economia europea si è venuta a creare una situazione della quale la politica si è approfittata, facendo ricadere le cause del generale malessere, non più esclusivamente circoscritto alle classi sociali disagiate, su di un capro espiatorio che si chiama “straniero”. Ci raccontano ancora, tra le altre, la triste favola per la quale gli immigrati ci rubano il lavoro, e dunque i soldi, alimentando così sentimenti di “razzismo economico” che ci fanno sentire addirittura infastiditi l’uno dall’altro. I politici populisti e neoliberisti sono i primi responsabili dell’aumento della xenofobia nella società europea. Parlando sempre di populismo e della retorica che viene utilizzata, per esempio, da personaggi come Matteo Salvini, è sensato definire l’essere umano un “clandestino” e categorizzare delle persone in cerca di rifugio? Richiedenti asilo, immigrati economici, extracomunitari, clandestini. Lo ripeto, questi sono termini che corrispondono alla tribuna politica odierna. Termini che portano voti. Termini dai quali si trae un profitto, cosicché ogni diverso gruppo li identifica con il nome più utile alla sua causa. Queste persone un giorno sono stranieri, il giorno dopo immigrati extracomunitari, poi diventano clandestini, poi invasori e, infine, diventano terroristi pericolosi per la nostra società. Nel frattempo all’interno del dibattito politico “dominante” le tematiche necessarie per dare una spinta di sviluppo all’Italia non vengono affrontate. La politica e il governo, che non riescono a comprendere e, di conseguenza, a rispondere neanche alle più piccole esigenze del cittadino, hanno la necessità di rendere l’immigrazione la vera problematica del paese. L’Italia oggi sta malissimo ed è ovviamente colpa degli “sbarchi” e dei “tantissimi” immigrati. Questa è la sintesi del pensiero “salviniano” di Salvini, come se il malessere del tessuto sociale italiano fosse il risultato di una fantomatica immigrazione clandestina. Per fortuna, grazie anche all’inchiesta di Mafia Capitale, molti cittadini hanno iniziato a farsi delle domande. Anche la stragrande maggioranza dei media nazionali parla dell’immigrazione come di un fenomeno “emergenziale”, e non strutturale. Perchè? A partire dalla politica dell’emergenza è nata la politica dell’invasione, alcuni vedono nell’emergenza una invasione e alcuni vedono nell’invasione una emergenza. Semplicemente, a livello mediatico si è voluto dare spazio e visibilità a Salvini e a quei gruppi che mistificano la realtà, per esempio quando parlano dei “costi” dell’accoglienza. Millantano di una ospitalità che valorizza l’immigrato e svalorizza il cittadino italiano e così via. Queste sono banalità. Nell’ultimo anno la consapevolezza nei riguardi della situazione reale sta maturando all’interno di quella parte dell’opinione pubblica che ha iniziato a riflettere sulle dinamiche dell’immigrazione e dell’accoglienza, arrivando a comprendere come i fondi stanziati, per esempio, non vengano sperperati dai migranti ma dai soliti noti. Se la maggior parte delle persone che arrivano in Italia non vuole rimanere c’è un perchè. Quali sono le misure più urgenti da mettere in atto? Prima c’è un processo essenziale da mettere in atto: quello di riqualificazione della politica, qui in Europa e nei paesi dai quali partono queste persone. In questo momento io non vedo un futuro migliore per i migranti che arrivano in Italia. Oggi l’Europa in generale si trova ad affrontare una grave crisi economica e sociale: alle condizioni attuali gli “ultimi arrivati” sono destinati a far parte di una classe sociale miserabile, con la certezza di essere sfruttati, lontani dall’ottenere una prospettiva di un futuro dignitoso. Ma si possono applicare delle misure che abbiano un impatto immediato nei paesi d’origine attraverso l’utilizzo di strumenti politici. Patti comuni per i quali venga riconosciuto all’aspirante migrante uno status particolare già nel suo paese, mettendolo così nelle condizioni di affrontare il suo viaggio in piena “legalità”, senza rischi per la sua vita, fornendo poi un supporto e un sostegno concreto al progetto migratorio che corrisponde alle sue esigenze. Così, peraltro, si coinvolge il migrante come soggetto attivo. Quali sono le condizioni di lavoro degli operatori impegnati nel sistema di prima accoglienza? Per quanto riguarda gli operatori che lavorano nei servizi pubblici presenti all’interno delle strutture e dei centri che accologo gli immigrati non saprei. Ma per quanto riguarda gli operatori che lavorano con il privato sociale, nelle organizzazioni non governative, nelle cooperative sociali, nelle varie associazioni, la maggior parte di loro vive una situazione di contratto assolutamente precaria, con “contrattini” a progetto, di collaborazione o addirittura a chiamata. Si va da contratti di due, tre mesi, a quelli da quindici, dieci o anche sette giorni. Il livello contrattuale come si può vedere dunque risulta molto scarso. Prima si poteva sopravvivere, ma poi con il Jobs Act, e la comparsa dei contrattini a chiamata o di quelle che chiamano lettere di incarico, gli operatori sociali non hanno più alcuna sicurezza. Oltretutto le grandi organizzazioni preferiscono utilizzare, nel vero senso della parola, operatori di basso profilo professionale, magari in età giovanile e senza esperienza, ragazzi che giustamente vedono nell’immigrazione la possibilità di imparare un mestiere sotto il tendone di una grossa Ong della quale fanno parte, ma poi vengono sfruttati. Questo è un campo nel quale la presenza di associazioni, o di personale, è molto numerosa ma dove i fatti concreti e le azioni che hanno una prospettiva purtroppo sono molto rare. La grande solidarietà volontaria dimostrata dai centri sociali, dall’associazionismo o da singoli cittadini rispecchia la voglia di cambiamento? Quanto sono importanti queste iniziative personali? L’attuale situazione potrebbe rappresentare un buon momento per mettere in moto un processo di ricostruzione e riqualificazione dell’Europa che, tranne per alcuni paesi, non è mai stata in grado di investire realmente sull’immigrazione. Penso che, in questo senso, l’esperienza americana di “melting pot” potrebbe servire da esempio. Purtroppo però le rivendicazioni di cambiamento rimangono spesso “chiuse dentro una scatola”. Questa nuova e drammatica epoca che stiamo vivendo potrebbe davvero dare anche all’Europa le basi per alimentare delle politiche tese ad attenuare i fastidiosi livelli di disuguaglianza. Sicuramente sono iniziative che possono dare un contributo importante. Ma la domanda è fino a quando e con quali risultati? Queste realtà, come i centri sociali appunto, hanno sempre dato un sostegno al miglioramento delle condizioni di vita degli immigrati. Il problema è che questo tipo di progetti solidali, comprensibilmente, hanno sempre un approccio che utilizza un metodo improvvisato. Così si fa fatica a raggiungere determinati obbiettivi. L’Italia per tante persone, che rischiano la vita per mare, è la prima terra che dà loro una speranza e la salvezza dalla morte; ma per il momento rimane sempre una terra sulla quale queste persone non possono contare.