La Galleria nazionale di Roma celebra l’impegno “militante” di Echaurren. Oltre le immagini
di Maurizio Zuccari
Una premessa, anzitutto, su Pablo Echaurren. Il suo uso del colore è un’avventura cromatica capace di traversare gli anni e le mode, le manìe e i tic incrociando ogni sorta di stili e materie per fare del proprio agire artistico un sol corpus. Che siano ceramiche o sguazzi, bagattelle o megatele, l’utilizzo e gli attraversamenti che fa dagli esordi a oggi di materiali, tecniche e idee lo rendono più prossimo ai medièvi che ai coèvi, portando la sua arte a tinte vivaci fuori dalle secche del bianco & nero concettuale. Ancor più forte è il distinguo nel panorama spesso mortifero & pestifero del contemporaneo riguardo all’uso della parola scritta. Uno scilinguagnolo di giochi e luminarie linguistiche che cozzano a maraviglia col fare dimesso, riservato anche se con punte di battagliero egotismo, del suo essere. Parole in libertà distanti decenni luce dal vuoto concettualismo e dai nonsensi – coltelli senza lama cui manca il manico, direbbe un caro amico – di certe elucubrazioni simili ai bugiardini farmacologici che mascherano l’(anti)estetismo parassitario dell’arte per l’arte. Puro illusionismo.
Dell’uso della parola scritta come una pennellata di colore, e viceversa; di una visione della storia e dell’arte (e della storia dell’arte) mai banale, in virtù di un vissuto che dalla tribù degli indiani metropolitani l’ha condotto a innamoramenti futuristi, Echaurren è un brillante esegeta. E per questo lo portai a tessere una controstoria dell’arte su Inside Art. Una controstoria agile come si conviene a un inserto a puntate, ma capace di vivere di vita propria, al punto da essere pubblicata col medesimo titolo e senza apprezzabili modifiche da un editore, quando già la nostra frequentazione e collaborazione s’era interrotta. Ma questa è un’altra storia e un bel cruccio. Ciò detto, al dunque.
Il termine contro, cui Pablo dev’essersi di molto legato, torna nella mostra con cui la Galleria nazionale d’arte moderna ne celebra la figura, privilegio concesso a non molti contemporanei. Poche esposizioni hanno titolo per essere definite personali come quella che alla Gnam racconta Echaurren e la sua contropittura. Non un’antologica o una musealizzazione in vita, una messa in mostra dell’opera omnia dell’artista romano, quanto piuttosto del suo pensiero e delle opere più propriamente (a)politiche. «Non si tratta di un’antologica, ma di una mostra tematica che intende mettere in luce l’aspetto più importante dell’arte di Echaurren e il suo avanguardistico contributo al pensiero contemporaneo», spiega con una certa enfasi Angelandreina Rorro, curatrice della mostra nonché della galleria che raccoglie la maggiore collezione d’arte contemporanea italiana, alla cui guida è giunta da pochi mesi Cristiana Collu con l’intento di rivitalizzarne il senso e l’immagine. E ciò spiega perché la mostra alla Gnam è quanto di più lontano da quella, per dire, che nei primi anni zero espose al Chiostro del Bramante la pluriversatilità di Echaurren. Qui è un focus minimalista ancorché corposo sul Pablo pensatore-artista, piuttosto che un excursus sulla sua multiversità.
Il percorso presenta oltre 200 lavori dagli anni Settanta a oggi, dai quadratini messi all’incanto da Arturo Schwarz che per primo se ne innamorò – acquerelli e smalti minimalisti riecheggianti visioni e miti dei ’70 coi tratti della minuteria orientale, tra i quali l’arcinota copertina di Porci con le ali – ai disegni e collage del tempo degli indiani metropolitani tra i quali Paino o Papageno (nomi d’arte ab origine) militò. Seguono le grandi tele a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta sul crollo del muro e la morte delle ideologie, fino alle pitture murali più recenti, riecheggianti in qualche misura l’eredità surrealista del padre Sebastian Matta. Tele dove la narrazione affronta tanto le tematiche ambientali che l’avvitarsi del sistema dell’arte su sé stesso, con i linguaggi della grafica pubblicitaria e un simbolismo sgargiante nei colori e nelle forme, mutuate dai toni del dadaismo duchampiano e del futurismo marinettiano cari all’artista. Non a caso una ceramica rivisitazione della Fontana di Duchamp – resa celebre sempre da Schwarz che la reificò in copia, essendo l’originale andato perso – apre la mostra romana.
È ancora il vetusto e alacrissimo critico milanese, a cui Paino deve assai, assieme al padre putativo Gianfranco Baruchello che lo introdusse nei meccanismi dell’arte, a tirare una summa sul bel catalogo Silvana, e noi con lui. «Pablo non ha mai smesso d’interrogare se stesso e la società, è sempre partecipe, percorre la sua strada da solitario, estraneo alle beghe e fuori dalle congreghe. Non teme di mescolare l’alto con il basso, il sacro e il profano, l’artista con l’artigiano. Egli si ricorda, di nuovo, del Tenebroso di Efeso: “La via in su e in giù è una sola e medesima via”. Disegna copertine per libri e riviste, crea fumetti d’avanguardia, scrive romanzi e pamphlet, adopera tutte le tecniche espressive che gli vanno a genio: pittura, disegno, ceramica, collage, assemblaggi, arazzi. Lancia razzi di segnalazioni in tutte le direzioni per avvisare gli altri naviganti che c’è bisogno di dire sì all’impegno e no all’assuefazione, al conformismo, all’abitudine. Idee guida: rivoluzione ininterrotta, necessità di dedizione, esigenza di costruire un pluriverso, ben diverso dall’uni-verso del mondo a senso unico. Un pluriverso per un homo totus che lascerà, lontano dietro di sé, l’uomo unidimensionale denunciato da Marcuse». Troppa grazia? Forse. Ma è un peccato – il contrario della grazia – che di tutto ciò la mostra alla Gnam ne serbi una pallida traccia. Ché in cotanta sede sarebbe piaciuta, più che la contropittura, la sua pittura.
Pablo Echaurren, contropittura, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, fino al 3/4/2016. Info www.gnam.beniculturali.it; pabloechaurren.com.