L’incontro con Djalminha l’aveva segnato per sempre, infondendogli una passione che non l’avrebbe più abbandonato. Si, Sebastian Abreu era decisamente “loco” per la cavadinha
di Carlo Perigli
«Tocca al Loco – esclama tra il preoccupato e il divertito il telecronista – Ti prego, non mi dire che lo fa!». El loco, al secolo Washington Sebastian Abreu. Tocca a lui battere il quinto rigore. Tocca a lui, ultimo ad andare dal dischetto, decidere se l’Uruguay andrà in semi-finale. Sono i quarti di Johannesburg, del mondiale sudafricano del 2010, una partita che per qualche minuto abbiamo pensato non dovesse finire mai. Dalla “parata” di Suarez, che si improvvisa portiere allo scadere dei supplementari, alla traversa dal dischetto di Gyan Asamoah, con il Ghana che non era mai stato così vicino ad essere la prima squadra africana tra le quattro grandi. Poi la lotteria dei rigori, dove Muslera si supera e, insieme ai tiri di Mensah e Adylah, respinge tutte le critiche riservategli dalla stampa sudamericana. E ora dal dischetto ci va lui, uno dei tanti “El Loco“ prodotti da quel vivaio infuocato chiamato America Latina.
Il grande pubblico europeo ne conosce a malapena il nome, anche se il vecchio continente l’ha girato in lungo e in largo, regalando gol e pillole di follia. In Sud America invece Abreu è una vera e propria leggenda vivente. Completa antitesi del concetto di “bandiera“, in vent’anni ha cambiato casacca circa venticinque volte. Ma la vera particolarità è il legame che riesce ad instaurare con ciascuna delle squadre in cui milita, anche rimanendo soltanto per una manciata di mesi. Come al Botafogo, che nella stagione successiva al biennio passato insieme, ha presentato una seconda maglia celeste, in omaggio alla nazionalità del Loco. Tutto merito di quel rigore, decisivo per la conquista del campionato carioca 2010 da parte del Fogao. Una cavadinha, o cucchiaio, se preferite, che bacia la parte bassa della traversa e si adagia in rete, con il portiere avversario che inutilmente tenta di rimettersi in piedi per agguantare il pallone.
Per Abreu si tratta di una vera e propria passione, trasmessagli ai tempi del Deportivo La Coruña da Djalminha, irrequieto ed estroso fantasista brasiliano, un altro che in quanto a locura non ha certo bisogno di lezioni. Uno che, per capirci, si giocò la convocazione ai Mondiali nipponici per una testata rifilata a Javier Irrureta, all’epoca allenatore dei galiziani, venendo così sostituito da un certo Kaka. In quei sei mesi insieme, prima che El Loco – quello uruguaiano – partisse verso una nuova avventura, il brasiliano gli spiegava la ricetta per una cavadinha perfetta. «Ci sono tre regole – gli diceva- devi osservare il portiere, correre veloce verso il pallone e sopratutto giocartela con parsimonia. Ma questa è solo teoria. Ciò che conta è la tua personalità, la tua intuizione, la tua emozione».
Sensazioni che Abreu prova decisamente troppo spesso, dimenticando in fretta tutto il discorso relativo alla parsimonia. Inaugurata laCavadinha del Loco nel 1999 con la maglia del Tecos, in totale i tentativi saranno ventiquattro, di cui ventidue andati a segno. Oltre a quello con il Botafogo, resta memorabile il rigore battuto contro il Fluminense, realizzato tre minuti dopo che un tentativo analogo era finito tra le braccia del portiere avversario.
E quella sera Washington Tabarez sapeva già tutto. Proprio quell’incolmabile abisso tra il comune senso della misura e i ragionamenti del Loco avevano convinto il ct uruguaiano a selezionarlo come terzo tiratore. Ma niente da fare, la conversazione era stata totalmente infruttuosa, con Abreu deciso a calciare per ultimo. D’altronde, lo aveva detto anche ad Eguren il giorno prima della partita: «Domani vinceremo grazie al mio rigore». Così, con tre centri a due per l’Uruguay, Sebastian Abreu si avvicina al dischetto, mentre Forlan chiude gli occhi e inizia una cantilena senza fine: «Ti prego non fare la cavadinha. Per favore, per favore, per favore».
Con Muslera girato dall’altra parte, alla fine forse Kingston, l’estremo difensore ghanese, era l’unico a non conoscere la peculiarità di Abreu. O, più probabilmente non ha creduto che potesse essere loco fino a tal punto. Per l’attaccante uruguaiano quegli undici metri rappresentavano tutto. Poteva essere lui, a 34 anni, a portare l’Uruguay in semi-finale 54 anni dopo i Mondiali di Città del Messico. Un Eroe, quel rigore l’avrebbe reso un eroe.
Con una nazione sulle spalle e gli occhi del mondo puntati addosso, Sebastian Abreu prende la rincorsa, avvolto dal frastuono delle vuvuzelas. I passi sono veloci e determinati. Kingston, come da copione, si muove in anticipo. Il resto, come ha imparato, è un misto di personalità, intuizione ed emozione, che toglie il fiato al popolo uruguaiano, assorto ad ammirare quel pallone che si alza a mezz’aria e vive una traiettoria lenta, apparentemente interminabile, prima di baciare dolcemente la rete.
Sebastian Abreu, l’ossessione per la cavadinha
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