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Ashraf Fayadh, il poeta condannato a morte dall’Arabia Saudita

La dittatura preferita dell’Occidente viola costantemente i diritti umani, discrimina le donne e condanna a morte dissidenti e intellettuali come Ashraf Fayadh, condannato a morte dall’Arabia Saudita

di Giampaolo Martinotti

Ashraf Fayadh

Figura prominente nello scenario dell’arte contemporanea saudita, il giovane poeta palestinese Ashraf Fayadh è stato condannato a morte dopo un processo sommario dalla corte di Abha, località nel sud ovest dell’Arabia Saudita dopo essere stato incriminato per una serie di reati legati alla blasfemia. Già accusato di apostasia e di intrattenere “relazioni sessuali improprie con persone del sesso opposto”, il suo crimine principale sarebbe quello di aver scritto nel 2013 un libro di poesie d’amore contenenti, secondo le autorità religiose, versi blasfemi e l’invito all’ateismo.

La sentenza ha immediatamente ricevuto la condanna delle varie organizzazioni che si battono in difesa dei diritti umani e anche la risposta sgomenta di tante personalità del mondo artistico e culturale non si è fatta attendere. Sui social media l’hashtag #FreeAshraf si fa sempre più rilevante, mentre Amnesty International ha lanciato una petizione online per chiedere il rilascio di Ashraf.

Questa assurda condanna a morte non è esclusivamente figlia di un iniquo iter processuale ma piuttosto può essere inquadrata all’interno delle dinamiche dispotiche di un sistema giudiziario e di un potere legislativo dominati dalla miopia della dittatura saudita. L’Arabia Saudita è un paese controllato da una monarchia assoluta e il sistema legale si fonda sull’interpretazione della Sharia, la legge islamica. Alleato degli Stati Uniti, e dell’Occidente, il regno della famiglia Al Saud riscuote da anni forti critiche per quanto riguarda la violazione dei diritti umani.

Decapitazioni, crocifissioni, lapidazioni e fustigazioni sono alcune delle pene previste dal sistema giudiziario saudita. Gli arresti arbitrari, come le torture e gli abusi fisici per i prigionieri, sono ormai una consuetudine. Le restrizioni delle libertà civili e religiose sono molto rigide e vanno dal divieto di associazione a quello di movimento. La libertà di parola non è contemplata e la censura investe anche il web. La situazione della donna è tragica: discriminazioni, violenze e violazioni dei (pochi) diritti sono comuni; si pensi che i tribunali nei confronti di una violenza sessuale puniscono generalmente sia la vittima sia il colpevole, mentre lo stupro all’interno del matrimonio non viene neppure riconosciuto. Anche le condizioni della comunità omosessuale (clandestina) o quelle dei lavoratori risultano catastrofiche.

Queste “anomalie” non impediscono però al regno saudita di essere a pieno titolo un partner finanziario e politico strategico per l’Occidente, rivelandosi un ottimo cliente soprattutto quando si parla di forniture militari; le bombe MK-80 prodotte dalla RWM Italia che dall’aereoporto civile di Cagliari atterrano a Taif e i contratti da 10 miliardi di euro stipulati a ottobre con la Francia sono solo due esempi. L’influenza internazionale dell’Arabia Saudita arriva al punto di permettere a una dittatura violenta di presiedere un importante pannello delle Nazioni Unite proprio sui diritti umani, naturalmente senza intralciare la sua brutale campagna militare in Yemen. Per non parlare dei famigerati rapporti con l’Isis.

In questo contesto Ashraf Fayadh potrebbe dunque essere decapitato, colpevole di aver espresso in maniera libera e pacifica la sua arte e il suo pensiero, condannato dallo stesso regime che a gennaio vedeva il suo ambasciatore Mohammed Ismail Al-Sheikh marciare per le strade di Parigi per la libertà d’espressione e contro il terrore.

Chris Decon e Ashraf Fayadh

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