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Cgil: niente ripresa, ma nemmeno conflitto

Dalla recessione alla stagnazione, la spinta esterna è finita e il governo è fallito. L’Almanacco di economia della Cgil smonta la narrazione renziana ma non dà segnali di ripresa del conflitto

di Giulio AF Buratti

Giovani_ombrelli_JobsAct

Macché ripresa: «senza un cambiamento del modello di sviluppo non si riprenderanno i livelli pre-crisi». Mai più. Tinte fosche nel quadro dipinto dalla Cgil nel suo Almanacco di economia. Un quadro che descrive il passaggio dalla recessione alla stagnazione, passando per il fallimento del jobs act.

La spinta esterna è finita

L’Italia ha registrato la maggiore intensità della crisi tra tutte le economie avanzate e nell’ultimo periodo sembra addirittura anticipare la tendenza generale alla “secular stagnation” (visto anche il ritorno della natalità ai livelli dell’Unità d’Italia) e alla “lowflation” (visto l’andamento dell’inflazione, anche in Europa). Lo “zero-virgola” di crescita italiana scandisce una variazione positiva ben lungi dal poter essere chiamata ripresa, non solo perché la variazione del PIL rallenta nell’ultimo trimestre (tanto da far ridimensionare le stime di crescita per il 2015 e le previsioni per gli anni successivi) perché la spinta esterna è esaurita. Il favorevole “rimbalzo” dell’economia è avvenuto prevalentemente grazie a variabili esogene (basso prezzo del petrolio, Quantitative Easing BCE e tasso di cambio favorevole), che stanno esaurendo la loro spinta a fronte soprattutto del rallentamento della crescita dei paesi emergenti (prima tra tutti la Cina) e della frenata del commercio internazionale, data l’assenza di una politica economica nazionale che agisca sui “vuoti” della domanda effettiva, come sulle debolezze strutturali dell’offerta. Senza contare la diffusa riduzione dei tassi di interesse da parte delle Banche centrali, la massa monetaria emessa solo con i QE della FED, con il QE della BCE e il Piano di finanziamento europeo a lungo termine (LTRO) ammonta circa a 9 mila miliardi di dollari (cifra senza precedenti), eppure non c’è alcuna ripresa mondiale e, anzi, si è inverata una vera e propria “trappola della liquidità” globale.

La svalutazione dell’Euro e la ricerca di una competitività extra-Ue, inoltre, assieme al paventato aumento dei tassi da parte della FED, ha indotto la Cina a sganciare lo Yuan dal Dollaro e a scegliere una sua svalutazione competitiva.

Allo stesso modo, la flessione del prezzo del petrolio ha causato una caduta della domanda interna e delle importazioni dei paesi esportatori di materie prime energetiche, ostacolando – anche in questo caso – le esportazioni europee. «Non era difficile prevedere che le vantaggiose variabili esogene non potessero durare nel tempo», commenta l’estensore dell’almanacco.

Come sostiene l’ISTAT nella sua Nota mensile n. 11, in Italia, “in presenza di una diminuzione degli investimenti, la debolezza del ciclo internazionale ha condizionato negativamente le esportazioni”. Sempre l’ISTAT afferma che “a ottobre i dati di commercio estero in valore hanno evidenziato il proseguimento delle difficoltà delle vendite sui mercati extra-Ue (-1,7% rispetto al mese precedente)”, a cui “si accompagna il rallentamento del clima di fiducia registrato a novembre, condizionato dall’evoluzione nel settore dei beni diconsumo”.

L’austerità non ha funzionato e la svalutazione competitiva – del lavoro, dell’Euro e, da ultimo, per via fiscale – ha rigenerato solo un temporaneo recupero dell’export pre-crisi, senza alcuna ripresa delle altre componenti della domanda aggregata e, in particolare, degli investimenti (nemmeno quelli “attratti” dall’estero, come dimostra l’andamento della bilancia dei pagamenti, in “L’economia italiana in breve” n. 104, dicembre 2015, Banca d’Italia). La Cgil sottolinea che alcune fonti istituzionali e organi di stampa hanno attribuito il nuovo rallentamento dell’economia nazionale alla paura generata dai recenti attacchi terroristici di Parigi (13 novembre 2015), ma la prima contrazione degli indicatori di crescita (oltre alla successiva descritta in tabella) risale ai mesi precedenti.

Il Jobs Act non ha funzionato.

Alla luce degli ultimi dati ISTAT su occupati e disoccupati di ottobre, è possibile un primo bilancio, in termini costi-benefici, dei provvedimenti di deregolazione del lavoro che vanno sotto il nome di Jobs Act e dei connessi incentivi previsti dalla precedente Legge di stabilità (sgravi contributivi per i neoassunti e deduzione del costo del lavoro indeterminato dall’IRAP), il cui costo per lo Stato ammonta a 5,9 miliardi di euro solo nel 2015.

Dall’inizio dell’anno a fine ottobre 2015 le fila degli occupati sono aumentate di 83.634 persone, di cui 178.024 a tempo termine e solo 2.367 a tempo indeterminato; nello stesso periodo, i lavoratori indipendenti (autonomi, partite Iva individuali, atipici, ecc.) sono diminuiti di -96.757 unità. Da ormai due mesi gli occupati sono tornati a diminuire (-84 mila persone) e, solo a ottobre, i disoccupati (-13 mila) calano tre volte meno di quanto calino gli occupati (-39 mila), gonfiando ancora la platea degli inattivi. Da gennaio a ottobre, al calo del tasso di disoccupazione ha corrisposto uno speculare incremento del tasso di inattività. Il tasso di inattività mostra la percentuale di persone residenti che non lavorano o per scelta, come i neet, le casalinghe o gli studenti, o perché troppo anziani e quindi ritirati dal lavoro.

Attenzione ché il tasso di inattività è diverso dal tasso di disoccupazione per due ragioni: nel tasso di disoccupazione si calcolano le persone che vorrebbero lavorare, ma non riescono mentre nel tasso di inattività si prendono in considerazioni altri gruppi. E i denominatori dei due indicatori sono differenti. Nel tasso di disoccupazione il dato è relativo alla popolazione attiva (o forza di lavoro, composta dagli occupati, dai disoccupati e dai soggetti in cerca di prima occupazione). Nel tasso di inattività il dato è pesato semplicemente sul totale della popolazione residente (cioè attiva e non attiva).

Rispetto al periodo pre-crisi, la Cgil ricorda che la forza lavoro si è allargata per via di nuove persone in cerca di occupazione e il tasso di inattività è diminuito, anche se le ore lavorate dei lavoratori dipendenti sono aumentate. Su export, investimenti privati e clima di fiducia, il Governo ha scommesso per realizzare la crescita del 2015-2019 e, allo stesso modo, ha posto le basi del quadro programmatico macroeconomico e di finanza pubblica per la Legge di stabilità 2016 appena votata, su cui la CGIL infatti ha espresso le sue perplessità. Il Governo ha scambiato fluttuazioni positive di natura congiunturale per una ripresa strutturale dell’economia italiana e, anziché scegliere una politica economica realmente espansiva e aprire una “vertenza europea”, ha mistificato dati e analisi macroeconomiche, alimentando la comprensibile speranza popolare di uscire dalla crisi. «Ma non c’è niente di peggio di una speranza disillusa, eccetto una falsa speranza!», chiosa l’estensore dell’Almanacco. Così come non c’è nulla di peggio di un grande sindacato che rinuncia al conflitto.

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