Sotto l’albero un campionario di sogni e bisogni dell’ex Belpaese diverso dall’immagine che l’inciviltà dei consumi offre di sé
di Maurizio Zuccari
Cosa vogliono gli italiani sotto l’albero? A girare tra gli abeti della nazione, quelli che affollano piazze e centri commerciali dell’ex Belpaese, quello che si svela è lo specchio dei desideri di un paese ricco di macerie prime, per dirla come Stefano Bucchi. Pigliamo ad esempio uno dei luoghi abetati dello Stivale. La stazione Tiburtina, crocicchio dell’Italia che parte o riparte, fate voi, e intanto stagna tra consumi flosci e poca voglia di ridere. Tra vetrine che calano le saracinesche prima d’aprirle e impianti sbullonati senza aspettare l’inaugurazione della prima pietra. Al piano nobile della futuribile stazione pensata come via d’accesso alla Roma giubilare per chi viene da nord – ma un po’ da ognidove – e già demodé come un quadro astratto, un bell’abete di giusta grandezza e sobrio addobbo omaggia il viaggiatore coi suoi desiderata appesi tra rami e lucori.
C’è chi lo usa come posta del cuore, supplicando Babbo Natale d’incontrare l’amico gay-friendly tenero e carino, max 35enne, con tanto di mail. C’è chi anela un lavoro qualesia e chi la luce in fondo al tunnel per la squadra del cuore. C’è chi si raccomanda per un intervento alla figlia di tre anni e chi chiede, semplicemente: stop the war, please. Insomma, i cartoncini appesi tra gli aghi di pino plastico sono un campionario di sogni e bisogni assai distanti dall’inciviltà dei consumi. Simile alle antiche favisse dove i ploranti calavano offerte agli dei pagani, agli ex voto dei santi cristiani, ai reliquari dei beati martiri. Così, il vecchio dalla barba bianca è assurto nell’immaginario italico a santo neppure tanto laico da cui ricevere grazie. Un esito inimmaginabile per il vecchiardo in verde inventato dalla Cocacola, trasformato dai creativi in rosso vegliardo. Icona dell’opulenza e del benessere occidentale a cui rivolgersi, fin dalla tenera infanzia, per l’inutile orpello e il costoso gingillo.
Scriveva Adriana Zarri su un quotidiano della sinistra antagonista ai primi di questo secolo, ma più di un’era geologica fa: “Ogni festività ha la propria barbarie linguistica. Grazie all’egemonia nordica della lingua, dei costumi, dell’economia anglosassone, ci siamo abituati anche noi mediterranei a Babbo Natale che, prima ancora che blasfemo, dovrebbe essere ridicolo all’orecchio di un cristiano: e se a qualcuno venisse in mente di inventare mamma Pasqua? Abbiamo fatto l’orecchio anche a pasquetta. Vi farebbe impressione se si dicesse natalino o nataletto per il 26 dicembre?”. E ancora non si pagava dazio all’orrido Halloween.