Prima nazionale, fino a sabato 9 a Genova, de “Il macello di Giobbe”, del Teatro Valle Occupato prodotto dalla Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse. Testo e regia di Fausto Paravidino
da Genova, Claudio Marradi
Se Giobbe lavora in macelleria ed è strozzato dai debiti. E’ una declinazione inedita di quello che i filosofi chiamano “interrogativo jobico” lo spettacolo in prima nazionale che, da giovedì 7 a sabato 9 gennaio, apre l’anno nuovo al Teatro della Tosse di Genova (www.teatrodellatosse.it).
E cioè: «ma se io sono così giusto e timorato di Dio, perché Dio è così ingiusto con me?». Una delle domande più radicali del pensiero occidentale, che interseca riflessione etica e teologica, anima il Libro di Giobbe della Bibbia. E, in versione riveduta e aggiornata ai tempi che corrono, anche “Il Macello di Giobbe”, spettacolo del Teatro Valle Occupato-Fondazione Teatro Valle Bene Comune per una produzione della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse. Testo e regia di Fausto Paravidino, uno degli autori più interessanti del panorama teatrale e cinematografico italiano, che già nel 2005 aveva firmato sceneggiatura e regia di “Texas”, presentato al festival di Venezia, con Valeria Golino e un giovane Riccardo Scamarcio a interpretare una storia di formazione e addio all’adolescenza srotolata tra pub e centri commerciali sulle colline di quella marca di confine che risponde al nome di “Basso Piemonte”. Espressione geografica misteriosa per chi non è della zona ma che indica praticamente un’enclave genovese in terra piemontese dove, in provincia di Alessandria e tra una manciata di borghi costellati di castelli, antichi feudi di famiglie nobili genovesi, tutti o quasi sembrano ancora sentirsi – dalla fede calcistica alle espressioni dialettali – cittadini del capoluogo ligure.
Proprio come nel testo biblico, la vita di Giobbe diventa il campo di battaglia della sfida tra due superpotenze metafisiche, Dio e Satana, le forze del Bene e quelle del Male, in fondo entrambi sovranamente indifferenti alle sorti della sua felicità come della sua disgrazia. A portare in scena uno spettacolo che, dopo il debutto nazionale, proseguirà con una tournée internazionale al Lac di Lugano (12 gennaio), a Parigi al Théâtre de la Commune di Aubervilliers (15-23 gennaio) e infine al Théâtre Liberté di Toulon (26 gennaio), una compagnia di attori di talento: Emmanuele Aita, Ippolita Baldini, Federico Brugnone, Filippo Dini, Iris Fusetti, Aram Kian, Barbara Ronchi, Monica Samassa e lo stesso Paravidino. Che spiega: «mi interessava studiare il Libro di Giobbe senza sapere dove questo mi avrebbe portato, mi interessava il confronto col sacro, col mistero, con Dio. Mi interessavano la crisi economica, gli incomprensibili meccanismi della finanza, apparentemente assurdi, talmente assurdi da costituire un’anti-teologia».
Quando la macelleria di Giobbe rischia di chiudere, per salvarla l’onesto macellaio si indebita con la banca. Ha una famiglia da mantenere, il garzone da pagare, una figlia malata e un figlio partito per gli Stati Uniti a studiare – per una specie di ironico destino familiare – finanza. Ritornato al paese per salvare la macelleria il figlio segue le proprie idee, che il padre non condivide, mentre due clown inquietanti, pagati da lugubri banchieri, si aggirano attorno al negozio con l’intento di fare fortuna con ogni mezzo. Sullo sfondo di questo “macello” biblico, di cui sono vittime il buon Giobbe e la sua famiglia, due divinità si affrontano: il vecchio Dio stanco, quello che Giobbe interpella e che resta muto e indifferente e il Dio del presente, quello di suo figlio e del denaro. E di quel turbocapitalismo che, con i suoi dogmi, è la religione più triste della storia perché anziché creare comunità dei suoi fedeli li relega, ognuno in perfetta solitudine, con la propria partita doppia di debiti e crediti da far quadrare tutti santi giorni.
A rischio di fare spoileraggio di un testo che ha almeno duemila anni di età, diremo che nell’Antico Testamento la domanda di Giobbe rimane senza risposta. Bisognerà aspettare Gesù che, nel Vangelo di Giovanni, risponde a modo suo all’aporia teologica quando dice al fariseo Nicodemo che «lo Spirito è come il vento e soffia dove vuole». Che, a rigor di logica, è anche come dire che Dio, nell’assoluta libertà che è una delle facoltà che definiscono la sua essenza, non può che ritenersi libero anche da quei patti che liberamente sottoscrive. Qualcosa del genere devono averlo pensato a modo loro anche manager e dirigenti di quelle banche fallite che avevano fatto firmare un mucchio di fogli alla clientela comune – quella che, guarda un po’, non ha santi in paradiso – solo per lasciarli con un pugno di mosche. Ma in fondo col denaro della finanza, come col dio delle religioni del Libro, è tutta questione di fiducia. Anzi, di vera e propria fede. Perché anche il denaro dei bilanci delle banche potrebbe in fondo non esistere, ma è quando tutti smettono di crederci che cominciano i guai veri.