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Il numero cinque, l’ottavo Re di Roma

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Paulo Roberto Falcao sbarcò a Fiumicino all’alba della notte di San Lorenzo, in punta piedi, ma pronto a diventare l’ottavo re di Roma

di Carlo Perigli

001Roma, 10 agosto 1980: una calda estate si prepara ad accogliere la notte di San Lorenzo. Quella delle stelle cadenti, dei desideri espressi, delle colline che si fanno sfondo di romantiche serate col naso all’insù. Così, anche i cittadini capitolini, come gli altri, alzano lo sguardo verso il cielo, con la speranza di vedere realizzati i loro sogni più belli. Ma in questa parte dell’urbe non ci sono colline, nè tantomeno stelle cadenti. Il romanticismo, sì, quello c’è, espresso in larga scala da quelle 5000 persone che con passione scrutano il cielo di Fiumicino, col cuore che palpita in attesa di scorgere nel cielo quel sogno coltivato per un’intera estate: «Eccolo, è lui, quello è l’aereo che viene da Rio. Lì dentro c’è Paulo Roberto Falcão».

Così finalmente si incontravano, Roma e il campione brasiliano che Dino Viola aveva regalato ai tifosi con la riapertura delle frontiere “pallonare”. La città è in festa, mentre Falcão attraversa la folla in punta di piedi, quasi sorpreso da quelle 5000 voci che all’unisono gridano il suo nome. Stupore, tanto, decisamente ricambiato dal popolo giallorosso, che da quell’aereo aveva visto scendere quel ragazzo alto, chiaro di carnagione, con i riccioli biondi e il portamento elegante, che firmava autografi con classe ed educazione, allontanando con determinazione quel carico di spocchia che è lecito aspettarsi da un divo. A guardarlo bene, sembra che Roma quel giorno stesse acclamando più un avvocato tedesco che un calciatore brasiliano. La folla ne invoca festante il nome, anche se in pochi conoscono le gesta di quello che tutto sommato rimaneva un illustre sconosciuto, il cui nome non figurava neanche nella lista dei convocati della Seleçao per i Mondiali del 1978.

E poi Roma, inutile negarlo, per mesi aveva sognato Zico, i suoi numeri, le sue magie, il suo estro tutto carioca che le emittenti locali avevano fatto rimbalzare di continuo nell’etere capitolino. Era lui l’uomo su cui aveva puntato la dirigenza giallorossa, convinta solamente dalla determinazione di Nils Liedholm a virare su Paulo Roberto Falcão. Il Barone aveva insistito, «gran giocatore, lui piedi come mani», convinto che proprio quel biondo riccioluto, il gaucho di Porto Alegre, fosse l’uomo giusto per fare il definitivo salto di qualità. Un brasiliano atipico, proveniente dalla città meno carioca che esista, dove il calcio spensierato e il “joga bonito” si perdono per lasciare spazio ad organizzazione e fase difensiva.

Ma l’epoca di internet, del “qui e ora”, della conoscenza sconfinata e senza tempo, è ancora lontana, e ai tifosi romanisti basta sapere la nazionalità del nuovo acquisto per sognare e pretendere numeri e giocate ad effetto. Il giorno della presentazione di Falcão, con un’amichevole tra Roma e Porto Alegre organizzata per l’occasione, il presidente Viola si fa portavoce della tifoseria, e chiede al brasiliano di mostrare qualche tocco sudamericano in grado di aizzare la folla. Falcão lo guarda stupito, quasi come non fosse in grado di capire una richiesta tanto assurda, ma alla fine decide di accontentarlo: al primo pallone utile il brasiliano si esibisce in un controllo di tacco, sombrero sul diretto avversario e tiro al volo che sfiora l’incrocio dei pali. L’Olimpico, com’era ampiamente prevedibile, si infiamma ed esplode estasiato, teneramente inconsapevole che quell’esibizione di estro e follia non godrà di ulteriori ripetizioni. «L’ho fatto – dirà Falcão a Viola alla fine dei novanta minuti – ma non mi chieda più di fare una cosa simile. Sono cose da foca ammaestrata, io sono un calciatore professionista».

Ecco chi era sceso da quell’aereo il giorno di San Lorenzo, la più perfetta e completa antitesi dello stereotipo che solitamente coltiviamo nei confronti dei calciatori brasiliani. A Falcão i numeri non interessano, né in campo né fuori. A chi si aspetta scappatelle notturne e feste sudamericane, scandali e copertine patinate, il brasiliano risponde isolandosi dalla movida romana. Spiega che lui intende la vita «solo così, con molta discrezione». Di giorno gira per la città in compagnia della madre, mentre la sera resta a casa, sposando in pieno quell’immagine di «angelo leggermente perverso nel suo ostentato candore», che su di lui aveva cucito Oliviero Beha.

Falcão è così, e traspone fedelmente dalla piazza romana allo stadio Olimpico il suo modo di intendere la vita, privo di tutti quegli orpelli che generalmente vengono – o forse venivano – associati al numero dieci. Falcão non lo è, non lo è mai stato e mai lo sarà. È un cinque, un numero che, sebbene da queste parti non rivesta un grande significato, dall’altra parte dell’Atlantico esprime tutta la nobiltà e l’intelligenza insita nel calcio. Il cinque organizza, dirige, dispone, in altre parole è “no comando do jogo“. Falcão è quel giocatore a cui devi consegnare il pallone affinchè lui possa dettare i ritmi e i movimenti dell’intera squadra. «Un fenomeno artistico – disse di lui Carmelo Bene – un grande artista paragonabile a un grande direttore d’orchestra, a un musico del gioco», che vive la sua esistenza nella costante ricerca del passaggio migliore. Imperioso nel suo intercedere in campo, Falcão domina la scena con l’orgoglio e la sicurezza di chi vive e gioca sempre a testa alta. I suoi occhi non si abbassano mai, non c’è una volta che il brasiliano degni il pallone di un solo sguardo. A chi gli chiede spiegazioni risponde beffardo: «Tu devi guardare i compagni, non la palla. Quella che la guardi a fare, non lo sai che ce l’hai tra i piedi?».

Guardare il pallone, che cose stupida, quasi quanto quell’inutile concetto chiamato visione di gioco. Ciò che conta, dice Falcão, è casomai la previsione, sapere cosa succederà una volta che avrai passato il pallone a questo o a quel compagno. I movimenti che prenderanno vita dopo la tua giocata, la scena che si disporrà in campo, ciò che succederà dovrà essere la fedele riproduzione di quel disegno che in una frazione di secondo hai sviluppato nella tua testa. E tra il dire e il fare, per Falcão non c’è nessun mare. Sulle sponde del Tevere si accorgono fin da subito che a Roma è arrivato un giocatore unico, un leader nato, che prende per mano la squadra, che le dà le certezze necessarie che servono per trasformare un buon organico in un’avversaria da battere, autorevole, convinta dei propri mezzi. In una parola sola: Divina, come lui.

Sarà una favola lunga quattro anni, costellata di successi e soddisfazioni, nella quale non mancheranno però i soliti intrighi, i dissidi con la dirigenza, le fughe e le guerre a colpi di carta bollata. Ci sarà quell’assenza lunga undici metri nella notte più buia del tifo giallorosso, un thriller sul quale esistono e sempre esisteranno versioni profondamente contrastanti. Ma alla fine emergerà una sola verità, immutabile col passare del tempo e delle stagioni: quel lontano 10 agosto, quando i romani dirottarono le proprie auto dirette verso il litorale, posticiparono le vacanze e accorsero a Fiumicino, tra le urla dei figli più piccoli e le minacce poco velate delle mogli, la storia della Capitale cambiò per sempre. All’alba della notte di San Lorenzo cinquemila persone videro il proprio desiderio prendere le forme gentili ed educate di un meraviglioso numero cinque, che con classe ed educazione arrivava a Roma in punta di piedi, pronto per diventarne l’ottavo re.

Tratto da Paulo Roberto Falcao, un re in punta di piedi
www.storiedelboskov.it

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