La prima nazionale di Blaubart Blue tratto dall’opera di Bela Bartok. Sul palco il coreografo Giovanni Di Cicco, che impersona Barbablù, con sette danzatrici
da Genova, Claudio Marradi
Tutti i colori della barba di Barbablù e delle stanze del suo castello. Ovvero: non aprite quella porta. L’ultima, quella della stanza da cui non si fa mai ritorno.
Ha debuttato in prima nazionale e con repliche fino a sabato 16 al Teatro dell’Archivolto di Genova (www.archivolto.it) la nuova creazione di DEOS – Danse Ensemble Opera Studio, compagnia di danza contemporanea diretta da Giovanni Di Cicco e residente presso la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
“Blaubart Blue” si ispira all’unica opera lirica di Bèla Bartók: “Il castello del duca Barbablù”. Scritta nel 1911 in collaborazione con Bèla Balázs, importante teorico del cinema del Novecento che firmò la stesura del libretto, l’opera si ispira alla favola di Perrault, rielaborandone le suggestioni simboliche. Quelle stesse che, nella declinazione coreografica che ne fa la compagnia Deos, vengono messe al servizio della sfida di rispettare la complessa partitura musicale e la costruzione drammatica dell’opera di Bartók, traducendo liberamente il tortuoso percorso interiore del protagonista.
Sul palco lo stesso coreografo Giovanni Di Cicco, che impersona Barbablù, con sette danzatrici – Angela Babuin, Cristina Banchetti, Emanuela Bonora, Melissa Cosseta, Maria Francesca Guerra, Barbara Innocenti ed Erika Melli – che occupano la scena insieme a lui: sono le donne del duca, tutte le donne del passato e la donna del presente. E’ la sua fresca sposa Judit, che come nella favola originale inizierà ad aprire una a una le porte di tutte le stanze di un castello la cui planimetria coincide con la geografia interiore di Barbablù. Nel regno crudele della memoria del protagonista si affollano così apparizioni spettrali di donne, fantasmi grotteschi e severi al tempo stesso, che convivono senza mai vedersi, intrappolate però in uno medesimo destino.
Judit, sposa innamorata e oggetto di un impossibile desiderio d’amore, sfida tutti i segnali di pericolo e i cattivi presentimenti, insistendo per aprire le porte dell’io segreto del suo amato e addentrarsi fino in fondo al suo animo. Ma dopo aver aperto l’ultima porta sarà inghiottita anch’essa, come tutte coloro che l’hanno preceduta, dalla notte. Nel silenzio della morte ormai imminente, la solitudine di Barbablù resta infine l’unica vera presenza, inevitabile come una condanna già scritta in una partitura che ha l’ambizione di essere fenomenologia della tentazione di assoluto nella relazione tra uomini e donne quanto anatomia del desiderio maschile nel suo lato più oscuro. Perché “Ogni uomo – recita in fondo una poesia di Oscar Wilde – uccide ciò che ama”.