Con la fine delle sanzioni la Repubblica islamica non è più sulla lista nera dei dottor Stranamore della guerra infinita. Crollano petrolio e borse, ma l’Italia si prepara a fare buoni affari e il mondo è un po’ più sicuro
di Maurizio Zuccari
Da una parte la rappresentante Ue Federica Mogherini e il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Zarif che sorridono come novelli sposi in luna di miele. Dall’altra Edward Luttwak, vecchio arnese della falcheria statunitense, che denuncia la resa umiliante. Iconizzata dalla vignetta di un quotidiano israeliano con il segretario di Stato Usa John Kerry, mani dietro la nuca – come la decina di marines catturati e rilasciati a tempo record nel Golfo Persico dalle Guardie della rivoluzione – ginocchioni davanti a Zarif. Passa tra questi estremi mediatici la fine delle sanzioni all’Iran avallata dall’Iaea. Teheran ha mostrato al mondo di non volere l’atomica, assicura l’Agenzia delle nazioni unite sul controllo dell’energia nucleare, ergo può essere tolta dalla lista dei cattivi e tornare a fare affari con l’Occidente. Alla faccia dei suoi principali accusatori, Usa e Israele, che la bomba ce l’hanno e nessuno se ne lagna. L’Iran non è più uno stato canaglia. Al più, è una simpatica canaglia.
Da un punto di vista economico le ripercussioni dell’accordo si sono già fatte sentire, con un crollo dei prezzi del petrolio e delle borse, all’indomani della dichiarazione iraniana di mettere sul mercato 500mila barili al giorno. Per l’Europa e l’Italia (secondo partner commerciale prima delle sanzioni, un decennio fa) si tratta di fare buoni affari, e in questo senso vanno visti il viaggio di centinaia d’imprenditori italiani a Teheran, a fine novembre, e la prossima venuta di Hassan Rohani a Roma, sua prima visita ufficiale. Per il presidente della Repubblica islamica annoverato tra i moderati si tratta di un successo che ne rafforza la statura in vista delle imminenti elezioni, a scapito dei settori più radicali. Come i citati guardiani della rivoluzione che con la presa dei marines sconfinati contavano appunto di far saltare il banco delle trattative. Per la prima volta da tempo in Iran la gente è in piazza a festeggiare e non per chiedere un cambio di regime. «Hanno visto cosa è successo nei paesi accanto, non vogliono saltare in aria andando a comprare il pane». Parola di Marjane Satrapi, autrice di Persepolis. Un rafforzamento che prelude a un’apertura e dunque a un rovesciamento, secondo i teorici delle rivoluzioni di velluto intrise di sangue.
Ultime le questioni militari, prime per importanza. Con gli Ayatollah tornati a essere simpatiche canaglie si rafforza (per ora) non solo il regime sciita interno, ma la sua proiezione internazionale. Assad e gli Hezbollah che combattono in Siria dalla sua parte, i ribelli Houthi nello Yemen e ovunque ci sia da menare le mani contro i wahabiti al potere in Arabia Saudita che tanta parte hanno nella gestione dell’Isis. E proprio il silenzio di Riad, che nei giorni scorsi ha mozzato la capa allo sceicco Nimr al Nimr con l’accusa di terrorismo, rinfocolando l’odio plurisecolare tra fazioni islamiche, è assordante. Mentre l’America di Obama da un lato toglie e dall’altro rimette l’embargo ai prodotti militari e nuove sanzioni per i lanci missilistici: un colpo al cerchio e l’altro alla botte, dopo lo scambio di cinque prigionieri fra le parti. Ma l’asse del male da colpire al cuore sull’autostrada che da Damasco porta a Pechino, passando per Teheran, non ha più in Iran la corsia preferenziale sulla quale far schiantare il mondo. Che da sabato è un tantino più sicuro, in barba ai vecchi falchi e ai dottor Stranamore della guerra infinita.