Il ricordo di uno dei maestri del cinema italiano. Ettore Scola, regista e sceneggiatore. Antifascista, impegnato nel sociale, le sue opere hanno fatto la storia
di Silvia Valente
Ricordare Ettore Scola significa, innanzitutto, prendere coscienza di quel che è stato il cinema italiano del secondo dopoguerra e la sua inedita capacità di mettere in luce i rapporti socio-politici che andavano creandosi nell’Italia borghese e proletaria uscita dal fascismo e dalla monarchia. Un cinema che, per questioni tanto ideologiche quanto logistiche, si ritrovava costretto al di fuori delle mura di Cinecittà (i locali erano utilizzati come ricovero per gli sfollati) a dover fare i conti con quelle tracce che la guerra aveva lasciato dietro di sé.
Scola mosse i suoi primi passi in questo contesto, frequentando la Roma liberata e respirando il fermento intellettuale del periodo. Fin dagli anni Cinquanta catapultato nel mondo delle vignette umoristiche del Marc’Aurelio – al tempo i periodici ospitavano nelle redazioni i futuri padri del cinema italiano, tra i quali Fellini, Zavattini, Steno, Risi e Monicelli – Scola esordì come sceneggiatore e insieme all’amico Ruggero Maccari formò una di quelle coppie di autori che fecero della scrittura cinematografica italiana un esempio di “cooperazione artigianale”1, sempre bilanciata tra lo slancio creativo e la concretezza metodologica. Sono questi gli anni, per esempio, della fortunata collaborazione con il regista Steno e dell’indimenticabile interpretazione di Alberto Sordi in “Un americano a Roma”, film che indaga l’influenza del mito americano nel costume italiano del dopoguerra.
È degli anni Sessanta, invece, l’esordio alla regia, che vede Scola perfettamente in linea con i film di genere in voga: dirige Sordi nel celebre “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”, commedia dal gusto avventuroso, che fa eco al filone nato in quegli anni del cinema “on the road” (che ebbe proficuo dialogo con gli Stati Uniti e vide in Rodolfo Sonego la sua icona) e dell’italiano all’estero; ma è senza dubbio con “C’eravamo tanto amati”, del ‘74, che lo si consacra a maestro del cinema, per la sua abilità nel mescolare affresco storico, ritratto generazionale, commedia e racconto autobiografico.
Nato da una collaborazione con l’affiatata coppia di sceneggiatori Age e Scarpelli (I soliti ignoti, La Grande Guerra, I compagni, I mostri), il film narra le vicende di tre amici lungo un periodo trentennale, dall’immediato dopoguerra agli anni Settanta, passando per il boom economico. Ritroviamo il tema della Resistenza antifascista e della liberazione partigiana, cui partecipano i protagonisti Gianni (Vittorio Gassman), Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores). L’intreccio delle loro vite è il pretesto per mettere in scena, tappa dopo tappa, la narrazione della Storia d’Italia del periodo, concentrata sulle vicende politiche cui i protagonisti guardano con interesse. Il passare degli anni scorre di lato all’evoluzione dei personaggi, che prende avvio dal comune terreno partigiano ma prosegue su cammini differenti, radicalizzandosi in una teoria anarco-comunista (Nicola), compromettendosi con una timida apertura al riformismo progressista (Antonio) e sposando appieno l’opportunismo piccolo borghese (Gianni).
Numerosi sono gli accenni autobiografici: la trattoria dove i tre amici si ritrovano è il calco degli ambienti dove gli sceneggiatori e i registi lavoravano al tempo, tra pasti caldi, credito facile e tavole rotonde. Le strizzate d’occhio ai fatti del recente passato e del presente sono volutamente esplicite, come nel caso del bivacco notturno per riuscire a iscrivere i bambini a scuola: è del ‘62 la riforma che prevedeva l’estensione della scuola dell’obbligo fino ai 14 anni, nonostante le evidenti difficoltà dell’organizzazione statale.
Non è un caso, che in un’opera tanto legata alla storia italiana, appaiano nei panni di se stessi i grandi volti del cinema e della televisione del tempo: Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Mike Bongiorno e Vittorio De Sica, cui il film è dedicato a causa della morte del regista, avvenuta durante la lavorazione dell’opera.
Ricordare Ettore Scola, dunque, è riavvicinare il cinema alla capacità di narrare le profonde tensioni sociali, il dramma intimo e collettivo della crisi dei valori. È reinserire il cinema in un contesto di presa di coscienza, di attività politica, di ripensamento dell’ideologia. È un incoraggiamento, per noi, a utilizzare il cinema per guardare alla storia passata, presente e futura, con l’occhio critico di chi, a differenza dei suoi personaggi costretti nella crisi degli ideali, non ha perduto speranza né cuore.
1 Devo questo termine e parte della documentazione al volume di Alessio Accardo, Age & Scarpelli: la storia si fa commedia, Editrice ANCCI, 2001.