L’amore per la sua squadra, per la sua terra, per la sua gente. Julen Guerrero aveva giurato fedeltà all’Athletic Bilbao, e onorò la sua promessa nonostante tutto
di Carlo Perigli
Elegante e triste, come sempre ormai, osserva dalla panchina la sua squadra soccombere per 3-0 contro l’Osasuna. Quando l’Athletic perde,Julen Guerrero soffre. Come gli altri, anzi no, il suo è un sentimento che viene difficile paragonare anche con le altre bandiere che hanno deciso di legare il loro nome ad una squadra. È un’altra storia, perchè Guerrero è cresciuto a Bilbao, dove il calcio è la sublimazione sportiva dell’amore verso la propria terra. Lui è il capitano basco di una squadra di baschi, la rappresentazione di un sentimento di appartenenza che – per chiarezza – niente ha a che vedere con i rigurgiti xenofobi che altrove cercano di vantare impossibili “parentele”.
Il 22 gennaio 2005 Julen Guerrero fissa il campo e vorrebbe essere lì. Ad inventare, a correre, a sudare. Una volta quello era il suo posto, e non è passato neanche troppo tempo. Pochi anni prima il suo nome era su tutti i giornali, acclamato ogni domenica come un Dio dal San Mamès. Aveva 18 anni, indossati con quella stessa eleganza che neanche il più insensato dei destini è riuscito a togliergli. Leggiadro, nobile, letale. Ventotto gol in due stagioni, quel ragazzo pacato dai lineamenti gentili si era affermato come uno dei centrocampisti più tecnici e prolifici degli ultimi vent’anni, forse di più. Il numero 8 in campo, il numero 8 sugli spalti, con le sue magliette indossate con orgoglio da migliaia di tifosi che ogni settimana popolavano il San Mamès. L’esplosione di un amore, ricambiato tanto da sentire quello stadio come una seconda casa, mentre la prima, appena i guadagni l’avevano reso possibile, se l’era fatta costruire sulla collina che domina il campo di allenamento dell’Athletic. Perchè non c’era altro a cui pensare, quel rettangolo verde doveva essere la prima cosa da vedere la mattina appena sveglio. Il campo, il calcio, Bilbao.
Il suo nome risuonava dall’Atlantico al Pacifico durante i Mondiali americani. Nessuno, veramente nessuno, poteva esimersi dal subire il fascino di quell’elegante giovane basco. L’idolo delle ragazze, il genero perfetto per le mamme, il figlio desiderato da ogni padre, un modello da seguire per i giovani. Sempre corretto, sempre disponibile, sempre con il cuore attaccato a quella divisa che, come tanti prima e dopo di lui, aveva inseguito fin da quando era bambino. E la casa sulla collina diventava meta di pellegrinaggio, con gli emissari dei più grandi club d’Europa che facevano la fila per tentare di convincerlo a rompere il cordone ombelicale, a trasferirsi in squadre che meglio avrebbero apprezzato l’elegante stoffa che il talento basco portava in dote. Lazio, Barcellona, Milan, Atletico Madrid: una sequenza interminabile e per molti incomprensibile di rifiuti. Da quelle parti si affacciò anche Ramon Mendoza, decennale presidente del Real Madrid, che sul giovane principe basco avrebbe voluto basare un nuovo ciclo di vittorie. Jorge Valdano lo voleva a tutti i costi, e Mendoza la fece breve: «decidi tu la cifra, firma e prepara le valigie». Sembra che quello sia stato l’unico momento in cui la granitica fedeltà di Guerrero ebbe un seppur impercettibile vacillamento. Nella capitale, d’altronde, il calcio è diventato leggenda, ha incarnato volti e piedi scolpiti in calce nella storia, si è elevato a spettacolo e vetrina del talento mondiale di ogni epoca. È inutile nascondersi, la camiseta blanca avrebbe certificato la sua esplosione, lo avrebbe consacrato come stella tra stelle.
Julen non ci pensò due volte, afferrò la penna e in quell’occasione prese per mano il suo destino. Che era blanco, si, ma anche rojo, e di certo non parlava castillano. Così Mendoza riprese la strada verso Madrid, non prima però di aver sgranato gli occhi, esterrefatto dal modo in cui Guerrero aveva deciso di chiudere la porta ad ogni trattativa, presente e futura che fosse. Dieci anni, Julen Guerrero aveva annunciato che il suo contratto con l’Athletic Bilbao, in scadenza nel 1997, sarebbe stato rinnovato fino al 2007. Gli ingredienti di un’invidiabile storia d’amore c’erano tutti, arricchiti dallo storico secondo posto conquistato dall’Athletic Bilbao nel 1998. La sua stella splendeva, il pubblico lo amava, la squadra lo seguiva. Perfetto, era tutto perfetto.
E adesso? Come si è passati dalla gloria alla malinconia? Nessuno sembra saperlo con precisione. Le voci si rincorrono, ma la verità non traspare mai del tutto. Di certo qualcosa successe con l’arrivo di Luis Fernandez e del “clan Navarra”, un gruppo di giocatori provenienti dall’omonima regione, anch’essa compresa nelle sette provincie che compongono l’Euskal Herria. Navarra e Vizcaya, differenze caratteriali, ma forse non è quello. Guerrero, con la fascia da capitano da poco conquistata, finisce in panchina a soli 26 anni. Lo spirito del basco da elegante diventa triste, come se qualcosa, o qualcuno, lo avesse abbandonato per sempre. Si dice che si alleni da solo, che nell’Athletic per lui ormai non ci sia posto, se non come comprimario. Eppure nessuno riesce a spiegare il perchè.
Le panchine, le tribune, il nuovo millennio consegna a Bilbao uno scenario che nessuno avrebbe mai osato immaginare. I tecnici si susseguono, ma Julen continua a rimanere ai margini della squadra, utilizzato con una parsimonia sempre crescente. Eppure, quando è chiamato in causa, mostra ancora la sua innata eleganza, anche se ormai viene spesso impiegato fuori ruolo. Già, perchè nel frattempo il calcio sta cambiando, e ha deciso di sacrificare la bellezza della mezzapunta sull’altare della fisicità. Forse non c’è nessun complotto, forse è solo questo: il calcio sta uccidendo se stesso, il suo romanticismo, la sua poesia, per farlo diventare un semplice strumento al servizio del business. «La tecnocrazia dello sport professionistico – scriveva il compianto Eduardo Galeano – ha imposto un calcio di pura velocità e molta forza che rinuncia all’allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio».
Pensieri che forse si rincorrono nella sua testa anche quella sera, mentre vede il suo Athletic soccombere sotto i colpi inferti dall’avversario. Lo Stadio San Mamès però, a dispetto di ciò che accadrebbe in molti teatri europei, è ancora pieno. La Catedral non si svuota, nessuno lascia il suo posto e tutti continuano a partecipare ai cori che si alzano una volta e un’altra ancora. Poi il boato, per quello che da altre parti verrebbe accolto come un banale gol della bandiera. La rete di Yeste non è la magra consolazione in una partita persa, ma il segnale che è necessario sostenere la squadra con un’intensità ancora maggiore. Cinque minuti, ed è tre a due. Ancora Yeste, ancora un boato. A nove dal termine poi, le gradinate tremano davvero. Non è il pareggio, non ancora. Il pubblico accoglie quella tuta che finalmente abbandona il suo proprietario, con il numero 8 che si scopre sulle spalle. Valverde ci prova, Guerrero entra in campo, regalando un brivido a chi si ostina a pensare che il calcio sia fatto «della stessa sostanza dei sogni». Avrebbe subito l’occasione giusta per segnare, ma il suo tiro viene murato da un difensore. Non è finita, perchè la palla arriva sui piedi di Tiko, da poco entrato anche lui, ed è gol. Tre a tre, l’impresa è riuscita.
Si, ma non è ancora completa. Manca un particolare, manca qualcosa in grado di rendere quella serata unica, che spieghi in maniera esaustiva il perchè di tutti quegli “8” presenti ancora oggi sugli spalti. Arriva ad un minuto dalla fine, ha la leggiadria di un cross di Iraola, la semplicità di un taglio sul primo palo di Guerrero e l’eleganza di un tocco che prolunga il pallone sul secondo palo. Gol, semplicemente gol. Lo stadio esplode e sembra voler entrare in campo, mentre Julen corre verso i tifosi con le braccia alzate al cielo. Sorride, salta, si sfoga, prima di essere sommerso dai compagni. È tutto lì: gli esordi, la casa sulla collina, l’amore per quei colori che sopravvive anche alle esclusioni e alle ingiustizie. Aveva avuto mille occasioni per andare via, ma è rimasto, contro tutto e tutti. Per quel gol, per quell’ultimo sussulto, un ultimo ruggito prima di ritirarsi di lì a poco. Doveva farlo, perchè loro, tutti quegli “8” che ogni domenica vivono il San Mames, ci sono sempre stati. Loro, a differenza di altri, non l’hanno mai abbandonato. Che fosse una bella sorpresa, un campione affermato, o un giocatore marginale, loro hanno continuato sempre a gridare il suo nome. E se invece voi volete dare un nome a tutto questo, se con una parola volete spiegare un sentimento che ha legato a vita un ragazzo divenuto uomo e la sua gente, chiamatelo amore. Amore vero.