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Jackie, O Jackie

Vanno all’asta i cimeli di Jfk, il suo vero assassino esce di galera e un romanzo biografico di Adriano Angelini Sut racconta meglio di una biografia romanzata la moglie del presidente Usa, Jacqueline Kennedy

di Maurizio Zuccari

Jackie e Adriano Angelini Sut
Jackie e Adriano Angelini Sut

Tredici pezzi, tra cui le chiavi della limousine su cui viaggiava John Fitzgerald Kennedy quando è stato ucciso, il 22 novembre 1963, e l’invito per la cena di gala che ci sarebbe stata quella sera, se non fosse stato ucciso. Si è conclusa da pochi giorni l’asta dei cimeli dell’assassinio di Jfk, e da poche settimane il suo vero assassino, James Sutton, alias James Files, è uscito dal carcere di massima sicurezza dov’era detenuto, per essere trasferito in un penitenziario in Illinois, in attesa d’essere scarcerato in primavera, dopo 36 anni passati in galera per vari omicidi. Non quello di Kennedy, per cui l’ex marine e agente Cia, oggi 72enne, non è mai stato incriminato. Nonostante abbia confessato da tempo d’essere stato lui a sparare da dietro la famosa staccionata sul grassy knoll il colpo mortale dei tre giunti a segno, quello che spappolò la tempia al 35° presidente Usa. Colpita da una pallottola esplosiva, perdipiù caricata a mercurio, per conto dei mafiosi Sam Giancana e Charles Nicoletti, anche lui tra gli sparatori. Un complotto, ordito dalla mafia e dalla Cia, che da sempre ha una verità ufficiosa, ma scaduta e mai provata. Così, da oltre mezzo secolo ufficialmente l’unico omicida resta quel Lee Harvey Osvald che manco sparò un colpo dei tre andati a segno, quel giorno nella città texana, subito messo a tacere da Jack Ruby con un colpo di pistola, anch’esso tra i cimeli messi all’asta.

Quello che non va all’asta né scade, ma resta sotto ai riflettori, è invece il vissuto della donna che quel giorno a Dallas sedeva accanto al presidente e si spinse sul cofano della macchina a raccogliere i pezzi del cervello spappolato del marito. Jacqueline Kennedy, detta Jackie, nata Lee Bouvier. Due biografie hanno riacceso i riflettori sulla moglie del presidente, scomparsa per un tumore nel 1994 – lo stesso anno dell’inascoltata confessione di Sutton/Files – icona del bel vivere del ‘900. L’ultimo, Jacqueline Kennedy Onassis, la biografia mai raccontata (Odoya, 300 pagine, 20 euro), di Barbara Leaming. E se lo dice lei, che sulla first lady d’America scrive biografie da una vita, c’è da crederci. Jackie, com’era chiamata la vedova Kennedy prima di convolare a nozze col danaroso Aristotele Onassis, ed essere ribattezzata Jackie O, è invece l’altra biografia che l’ha preceduta di un paio di mesi, e a scriverla è Adriano Angelini Sut (Gaffi, 414 pagine, 20 euro). E di quest’ultima parliamo.

Biografia sui generis, va detto. Meglio, romanzo in forma biografica, o saggio in veste romanzesca, in omaggio alla contaminazione dei generi cara allo scrittore romano. Narrazione dove la pars biografica è tanto verosimile, grazie all’espediente dell’intervista della signora al fratellastro, da risultare più veritiera o, quanto meno, verosimile di tante biografie vere, o presunte tali, su di lei. Inarrivabile arrivista, amante della bella vita e di chiunque fosse capace di garantirgli uno status adeguato, occhiuta pigliamariti a caccia di potere e denari, seguendo l’esempio materno. Non bella neppure per i canoni dell’epoca, con quel naso schiacciato e la bocca larga, Jackie seppe catalizzare su di sé l’attenzione del mondo, trasformandosi in una figura mitica, anzi mitopoietica, capace di sfidare il tempo e far dimenticare la propria miseria umana. La svampita che andava all’università seguita dalla badante col cagnolino, che vestiva firmato e abitava magioni di lusso ma si dichiarava commossa per le sorti degli ultimi. In grado d’andare a letto con l’architetto che eresse il monumento funebre del (primo) marito, oltre che tessere dubbie relazioni col padre Joe e il fratello Bob, prima che questi fosse messo a tacere dagli stessi che avevano spappolato il cervello a Jfk e svignarsela – senza darsi la pena di dare un aiutino o cercare di capire chi avesse armato le mani assassine – a fregare l’amante (il sopracitato Onassis) alla Callas e alla sorella, e altre minutaglie del genere.

Ecco, una così, umanamente rivoltante – sia detto senza prudori moralistici – che per la maggior parte degli umani è meglio perdere che trovare, per dirla come una volta, poté essere icona dell’american way of life e degli Usa che avevano disperato bisogno di simili suffragette dal volto umano – troppo umano, avrebbe detto Nietsche – negli anni in cui l’America s’infognava in Vietnam e tentava di recuperare Cuba alla causa della mafia newyorchese, oltre che dell’imperialismo, rimediando la malafigura della Baia dei Porci. Una così, si diceva, capace di stare sugli allori del mondo nonostante la sua pochezza, è il personaggio perfetto per raccontare il mondo. La capacità di Angelini è tutta qui: renderla umana – troppo umana, avrebbe ribadito Nietsche – scavando nei meandri del suo pensiero e spiegarne meglio che in un ponderoso saggio moventi e atteggiamenti. Offrire un ritratto psicologico della ex first lady Usa e di questi che se non la rende campione di simpatia (come traspare da alcune pagine dell’autore) la rende assolutamente umana. Una donna del suo tempo capace di parlare al nostro. Se è nella cifra di uno scrittore saper raccontare l’essere fuori dal personaggio, e un tempo partendo da una persona, ciò è quanto fa Angelini. Così, vale per lui il contrario di quanto quel buoncuore di Togliatti raccomandava ai suoi: i libri non meritano tutti d’essere letti, gli uomini (e le donne) meritano tutti che gli si parli. La sua Jackie è uno di quelli che meritano d’essere letti.

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