“Non vi è purtroppo un forte sistema di sicurezza se il governo non lascia ai suoi servizi di polizia un certo margine di libertà”, scrive Sergio Romano a proposito dell’omicidio di Giulio Regeni
Per ignoranza e/o viltà, la maggior parte dei commenti dei mass media sulle indagini sul rapimento e l’assassinio di Giulio Regeni abboccano a tutti i tentativi di depistaggio messi in atto non solo dagli assassini, ma dai nostri governanti. Costoro, a partire da Renzi, ritengono che bisogna evitare ad ogni costo di guastare le relazioni col regime di al Sissi, ottimo acquirente di armamenti e partner privilegiato dell’ENI, oltre che alleato strategico dell’intoccabile Stato di Israele.
Così si tirano in ballo ipotetiche spie, servizi di sicurezza britannici o statunitensi, società di intelligence, per insinuare che Giulio Regeni in fondo i guai se li era cercati. L’insinuazione sulla possibile utilizzazione delle ricerche di Giulio da parte di qualche servizio europeo è grottesca: è evidente che i servizi utilizzano quel che è disponibile, ma Giulio cercava solo di capire e di far capire, tentando di far conoscere i risultati delle sue ricerche su un sito come http://nena-news.it/ o sul Manifesto (sia pure con interesse non ricambiato, di cui ho parlato a suo tempo in Il Manifesto confessa, ma non è assolto).
Si discute molto del numero di costole rotte, o di altri particolari insignificanti, per nascondere che in Egitto, prima che l’orrore del regime militare si riversasse su Giulio, decine di migliaia di innocenti erano spariti senza nemmeno la finzione di un processo, e che questo non aveva minimamente turbato i nostri governanti, come non si sono mai accorti degli orrori di un altro loro grande alleato, il regno feudale dell’Arabia Saudita, o della politica ferocemente anticurda e antidemocratica di Erdogan, spacciata per lotta al terrorismo, ecc. ecc.
D’altra parte neppure il papa nell’intervista a Sisci si accorge della persecuzione degli islamici ujguri in Cina, e neppure si preoccupa tanto dei sacerdoti e vescovi incarcerati in quel “grande paese” (Vedi La prima intervista di papa Francesco sulla Cina e il commento di Sandro Magister qui).
In questo contesto è comunque positivo che, sia pure in ritardo, e con la molla iniziale della simpatia per un giovane studioso che non si è lasciato intimidire dal clima di terrore, di Giulio Regeni e quindi dell’Egitto, nonostante tutti i tentativi di impedirlo, si continui a parlare.
Ed è interessante che nelle rassegne stampa radiofoniche sia esplosa un’ondata di indignazione nei confronti dello storico ed ex ambasciatore Sergio Romano, che in realtà ha semplicemente detto con franchezza (o se si vuole brutalità) una verità: “non sapremo mai con esattezza che cosa sia realmente accaduto al giovane Giulio Regeni quando è stato fermato dalla polizia egiziana il 25 gennaio. Il governo del Cairo continuerà a dichiararsi addolorato per la tragica morte di un cittadino italiano e prometterà che le indagini saranno indipendenti e scrupolose. Ma se le cose sono andate come è lecito supporre, il nome dei veri responsabili rimarrà un segreto di Stato e le circostanze della morte difficilmente ricostruibili”. Sergio Romano ha aggiunto con qualche eufemismo che “non vi è purtroppo un forte sistema di sicurezza se il governo non lascia ai suoi servizi di polizia un certo margine di libertà”. E ha previsto che noi “possiamo indubbiamente deplorare i mezzi con cui il maresciallo Al Sisi ha conquistato il potere e la brutalità con cui impedisce alla stampa di fare il suo lavoro. Ma dubito che un governo straniero possa persuaderlo, in questo momento, a modificare i suoi metodi.”
Sergio Romano tira in ballo come attenuante per Sissi il “terrorismo islamico” che minaccerebbe l’Egitto, sorvolando sul fatto che il regime militare se l’è cercato destituendo gli islamici moderati da ogni carica e condannandoli assurdamente a morte per reati inesistenti; ma poi spiega francamente le vere ragioni per cui al Sissi può stare tranquillo, ricordando i metodi del governo britannico per combattere l’IRA e l’indulgenza delle “democrazie europee” nei confronti dei metodi della CIA, o del carcere senza legge di Guantanamo. E ricorda anche che nessuno ha detto agli Stati Uniti “che non era giusto rapire un imam nelle strade di una delle nostre città per trasferirlo in un Paese (spesso, guarda caso, l’Egitto) dove sarebbe stato torturato”.
Sergio Romano, dopo questa elencazione di casi di “realismo” già sperimentati, accenna di sfuggita a possibili misure come “l’interruzione dei rapporti diplomatici”. In realtà ce ne sarebbe una assai più efficace, la rottura di contratti di forniture di armi. Ma l’ex diplomatico non la prende nemmeno in considerazione e conclude che sicuramente “una tale via d’uscita [il ritiro dell’ambasciatore] non avrebbe altro risultato fuor che quello di privarci dei nostri abituali contatti con uno dei maggiori protagonisti dalla regione. Saremmo meno informati su ciò che accade in Medio Oriente e perderemmo il capitale di amicizia che l’Italia ha costruito con quel Paese nel corso degli anni”.
Sarebbe forse stato più onesto parlare, invece che del capitale d’amicizia, di altri capitali investiti in quel paese (o nelle fabbriche di armamenti che lo riforniscono).
Ma sono discorsi astratti: Renzi ha visitato l’Arabia Saudita subito dopo le decapitazioni di leader religiosi sciiti, si è precipitato in Argentina, primo leader europeo a visitarla rompendo il boicottaggio che puniva i gesti coraggiosi dei Kirchner sui debiti internazionali, per abbracciare un presidente iperliberista il cui primo gesto è stato l’intesa con i fondi avvoltoio. Su Regeni ha lasciato parlare a vuoto il suo inconsistente e ininfluente ministro degli esteri, e alla prima occasione abbraccerà di nuovo al Sissi, accontentandosi di qualche frottola. Sergio Romano lo dice in modo che qualcuno trova brutale, ma conosce bene come va il mondo, e come si applica la giustizia nell’età dell’imperialismo.
Giulio Regeni era un nostro giovane connazionale che, oltre alla capacità di parlare correntemente almeno tre lingue, tra cui l’arabo, poteva vantare una brillante carriera di studente ad Oxford e successivamente di ricercatore a Cambridge. Che questo giovane sia stato torturato e ucciso in Egitto non è una notizia che può passare inosservata. A leggere gli articoli della stampa sulla tragica vicenda che ha portato alla sua morte, si riceve l’impressione che il suo fosse l’‘identikit’ perfetto dell’agente segreto. Secondo quanto riferiscono i giornali, egli era anche un collaboratore del “manifesto”, alla cui redazione inviava articoli sul Vicino Oriente firmati con uno pseudonimo e caratterizzati da un orientamento politico ostile al regime di Al Sisi e vicino alla variegata opposizione egiziana, non esclusa quella rappresentata dal fondamentalismo islamico più oltranzista. In sostanza, se si considera l’equazione tra la politica estera statunitense nel Vicino Oriente e la simulazione della guerra all’ISIS, si può ipotizzare che Regeni fosse un agente filoamericano al servizio dell’Occidente. Il “manifesto”, un giornale non nuovo a coinvolgimenti nelle ‘spy story’, come dimostrato dal sequestro della giornalista Giuliana Sgrena in Iraq, che costò la vita all’agente segreto italiano Nicola Calipari nel 2005, ne era a conoscenza? In caso affermativo, dovrebbe spiegare ai suoi lettori il significato di queste sue iniziative che si pongono in un contrasto stridente con la propria ispirazione politica; se invece la redazione del “manifesto” non era a conoscenza del ruolo svolto da un suo collaboratore, ancorché occasionale, meglio sarebbe per essa cambiare mestiere
Giulio Regeni è morto a soli 28 anni, probabilmente a causa delle torture e delle sevizie inflittegli dai servizi di sicurezza di Al Sisi, mentre svolgeva la missione che gli era stata affidata. La stessa imbarazzante polemica, sorta tra i famigliari del giovane e la redazione del “manifesto” sulla tardiva pubblicazione di un articolo da lui inviato, rende più densa la coltre di ambiguità che circonda una vicenda di per sé tragica, ma anche tutt’altro che indecifrabile. Sorge allora spontanea la domanda: è possibile che Regeni non lavorasse unicamente per i servizi segreti italiani? Una domanda che chiama in causa, anche su questo terreno minato, la questione della sovranità nazionale, poiché legittima il sospetto che il ruolo dei nostri servizi segreti (così come quello del nostro paese nella competizione imperialistica) possa essere quello dell’asino che porta sulla groppa la botte di vino, ma beve l’acqua. È prevedibile che queste domande, queste ipotesi e questi sospetti siano destinati a restare senza risposta. Meno problematica sembra essere invece la risposta a chi afferma che la mitica testata di Luigi Pintor e Rossana Rossanda si è ormai ridotta, da lunga pezza, a svolgere, in un sistema dove il potere si sceglie e si costruisce le sue opposizioni, il ruolo sussidiario di “agenzia” di propaganda imperialista per signorini ‘radical-chic’. I trozkisti come Antonio Moscato, apologeti delle “primavere arabe” e plaudenti al linciaggio di Gheddafi, rientrano organicamente in quel tipo di sussidiarietà.