Da inizio anno Maso è stato iscritto nel registro degli indagati. Per lui si sono spalancate le porte di una clinica psichiatrica. Storia di una redenzione frettolosa
da Treviso, Enrico Baldin
Ormai da diverse settimane si susseguono notizie dal velo cupo su Pietro Maso, personaggio noto alle cronache di inizio anni ’90 per aver ucciso i genitori con l’aiuto di tre complici. Li ammazzò per intascarsi i soldi dell’eredità, per continuare a condurre quella “bella vita” fatta di abiti firmati, auto fiammanti, gioco d’azzardo, feste e donne. L’oggi 44enne veronese ha saldato i suoi conti con la giustizia nell’aprile del 2013 con cinque anni d’anticipo rispetto alla sentenza di condanna. Ma per lui i problemi con la legge paiono non essere terminati.
Da inizio anno Maso è stato iscritto nel registro degli indagati. In un sms erroneamente inviato ad una sorella, ma destinato ad un amico, erano contenute minacce e chiare parole che facevano pensare ad un tentativo di estorsione. La sorella di Maso, preoccupata, si è rivolta alle autorità inquirenti che avrebbero successivamente intercettato anche minacce alle sorelle le quali, dopo anni di carcere avevano perdonato e aiutato il fratello in un percorso di reinserimento. L’amico a cui Maso continuava a chiedere danaro gli aveva già dato 25000 euro in diversi bonifici. A titolo gratuito, attratto dalla personalità di Maso, dominante un po’come avvenne col suo principale complice di 25anni fa, il succube Giorgio Carbognin.
Aldilà di ogni fatto di cronaca la vicenda Maso riapre ferite e sofferenze che dal 1991, pur mai chiuse, parevano essersi attenuate. Mancano però certe riflessioni più ampie e pazienti sulle vicende legate a questo personaggio, alcune delle quali legate a quella superficialità, a quell’edonismo che di Maso è sembrato – in gran parte della sua vita – il moto conduttore.
L’aspetto più lampante su cui la riflessione collettiva è decisamente “sorvolata” è quel gusto per la redenzione facile, il piacere per quelle belle storie in cui la peggiore delle persone si pente ed inizia una nuova vita. Maso in carcere – stando a quanto si leggeva in cronache e interviste di una decina d’anni or sono – diviene un detenuto modello. Studia filosofia, prega, intrattiene una relazione epistolare con un prete, riferisce di una fede profonda, risponde alle lettere di giovani in collera coi genitori inducendoli a dialogare e a non rovinarsi la vita. Recita la parte dell’angelo in una commedia teatrale dei detenuti del carcere di Opera. Ammette di aver sbagliato, ma sostiene di essere cambiato e di essersi convertito. Racconta del progetto di aprire una comunità in Spagna per accogliere quelli che come lui sono stati in carcere. Ormai Maso pare aver superato il momento, l’esperienza e la riflessione conseguita lo fanno sentire se non un maestro di vita, almeno uno che può insegnare a non fare come lui.
In molti gli credono, compreso il giudice che in largo anticipo ha concesso le misure di semilibertà e di libertà. Il suo percorso di redenzione accompagnato da un prete e il suo rapporto ritrovato con Dio gli aprono delle strade: trova un lavoro nell’emittente cattolica veronese “Telepace”, scrive un libro uscito a pochi giorni dalla sua scarcerazione, concede interviste in cui ricama su di sé la figura dell’evangelico “figliol prodigo”, si sposa. Il tutto accreditato dalla stampa, in particolare dai rotocalchi scandalistici che di certe storie sono ghiotti. E non solo: Maso aveva convinto le sorelle, il suo padre spirituale e un po’tutti. Persino – a suo dire – Papa Francesco a cui avrebbe scritto “pregando per la pace” e da cui avrebbe avuto risposta in un colloquio telefonico. Ma alla luce delle minacce e delle estorsioni di cui si è letto queste settimane, forse qualcuno avrà riflettuto sulla frettolosa riabilitazione di Maso.
Eppure che non tutto andasse proprio per il verso giusto qualche segnale c’era. All’epoca lo psichiatra Vittorino Andreoli, incaricato di una perizia sui protagonisti dell’omicidio di Montecchia di Crosara, sostenne che Maso uccise perché affetto da una “ipertrofia narcisistica”. Il disturbo narcisistico della personalità, il “sé grandioso”, come viene definito. Insufficiente per concedere la parziale infermità di mente che gli avrebbe accorciato quella pena per duplice omicidio premeditato aggravato, ma quanto bastava per spiegare certi comportamenti e certi tratti caratteriali di quel Pietro Maso che alle prime udienze si presentò in tribunale sprezzante, con l’aria beffarda e con un aspetto tutt’altro che dimesso o austero. Come se l’intento fosse sempre quello di piacersi e piacere. Quell’aria da narciso lo accompagnerà anche poi, alle prime uscite temporanee dal carcere quando sarà attorniato da macchine fotografiche e giornalisti, o quando concedendo una intervista ad inizio 2016 per Chi poserà in foto che lo ritraggono abbronzato, muscoloso, tatuato, a torace scoperto o con la camicia aperta. Ma rigorosamente con la corona del rosario al collo, sennò che conversione sarebbe la sua?
Non facevano pensare bene neanche le foto che lo ritraevano in compagnia di quel Fabrizio Corona, che su narcisismo e vanità (oltre che sulle estorsioni e una interminabile serie di altri illeciti) aveva costruito parte del suo impero commerciale. Andando a ritroso nel tempo pure la scrittrice ed esperta di delitti Cinzia Tani nel 2008 sentenziò senza mezze misure che Maso in carcere era preoccupato soprattutto delle lettere delle fan, della crema abbronzante, del profumo e del body building.
Insomma, gli elementi per accorgersi che Pietro Maso non fosse un san Paolo dei giorni nostri c’erano tutti. Bastava volerli vedere, bastava dare un po’meno credito a quei frivoli giornaletti interessati a commuovere ricamando delle belle storie. Anche perché di certe nauseanti storie di redenzioni non se ne può davvero più.