Domani, a Napoli, la presentazione di “Rivoluzione e internazionalismo”, saggio di Michele Azzerri su Trotckij e il trotckijsmo. Ecco una recensione di Aldo Bronzo
di Aldo Bronzo
Forse è corretto ritenere che la pur vasta letteratura saggistica su Trotckij e il trotckijsmo non abbia mai dato luogo ad una trattazione sistematica di un fenomeno così articolato e complesso, capace di interpretare per un lungo periodo storico, a dispetto dell’esiguità delle sue forze, una funzione antitetica allo stalinismo e alla socialdemocrazia che nelle file del movimento operaio svolgevano un ruolo ampiamente egemone. Per di più, dopo il crollo del “socialismo reale” e la conversione dei seguaci del “Piccolo padre” e dei riformatori più illuminati al ruolo di gestori e cantori delle meraviglie dell’economia di mercato, il trotckijsmo si configura come una componente effettiva capace di iniziative politiche rivolte a delineare soluzioni realmente antitetiche alla crisi lacerante che investe il capitalismo dominante, a cui contrappone la prospettiva di un impianto socialista depurato da ogni impostazione autoritaria e da qualsiasi burocratismo sclerotizzante.
Questo contesto di valutazioni caratterizza il pregevole lavoro di Michele Azzerri ( “Rivoluzione e internazionalismo”, Aracne, 2015) che con apprezzabile rigore ricostruisce l’intero iter del fenomeno trotckijsta, a cominciare dalla figura e dal ruolo dello stesso Trotckij di cui si enucleano i due pilastri teorici che hanno caratterizzato la sua attività di teorico e di dirigente rivoluzionario: la concezione della “rivoluzione permanente” e la lotta strenua contro l’involuzione burocratica che coinvolse lo Stato nato dall’esperienza rivoluzionaria conclusasi nel ’17 con la presa del potere da parte dei bolcevichi. Azzerri evidenzia come Trotckij, alla luce di un’assimilazione compiuta delle categorie del marxismo rivoluzionario, si sia orientato con largo anticipo in favore di uno sbocco socialista della rivoluzione russa – in giustapposizione allo stesso Lenin – anche se entrambi si orientavano a patrocinare una generalizzazione del processo rivoluzionario nei paesi a capitalismo avanzato, in mancanza del quale la stessa rivoluzione russa non avrebbe resistito alla pressione degli eventi. Fatto sta che le “tesi di aprile” con cui Lenin, al rientro in Russia, impose un riarmo teorico e politico al partito ai fini della presa del potere, suonarono come un esplicito riconoscimento dello stesso Lenin alle valutazioni e alle considerazioni previsionali proprio di Trotckij; dopodiché Trotckij aderì alla formazione bolcevica, riconoscendo di fatto piena validità alla concezione leniniana del partito di cui, in epoca antecedente, non aveva colto la pertinenza e la validità. Insomma Trotckij aderì alla formazione leniniana solo dopo che Lenin e i suoi avevano riconosciuto la validità della concezione della “rivoluzione permanente”.
Anche in riferimento alle vicende postrivoluzionarie Azzerri mette a punto una ricostruzione convincente degli eventi che hanno portato al consolidarsi di spinte involutive, quella degenerazione burocratica che caratterizzò lo stalinismo e che trovò Trotckij uno strenuo e indefesso oppositore, nella misura in cui fu sempre capace di cogliere i nessi connettivi tra le mutevoli esigenze del gruppo di potere ormai egemone in Unione sovietica e le svolte imposte al movimento comunista internazionale chiamato di volta in volta ad avallare le opzioni di Stalin e soci o determinare un contesto più propizio all’attuazione di quelle scelte che, non di rado, tracimavano nel paradosso. Di qui derivarono orientamenti sovente suicidi che comportarono il fallimento di congiunture eccezionalmente favorevoli – come in Cina nel 1927 – o tentativi avventuristici di insurrezioni quando mancavano di ogni realistica sussistenza, come nel “terzo periodo” dell’Internazionale comunista. Azzerri evidenzia come Trotckij abbia sempre colto con assoluta pertinenza anticipatrice l’assurdità di metodiche del genere, riuscendo quasi sempre a prevedere gli esiti di questi orientamenti che erano esclusivamente il prodotto delle esigenze della casta burocratica formatasi in Unione Sovietica per via del mancato scoppio della rivoluzione nei capitalismo avanzato e del conseguente isolamento del potere rivoluzionario in Unione Sovietica dopo il ’17. Insomma per Trotckij lo stalinismo non è la continuità del bolcevismo, ma la sua negazione.
Di notevole interesse si configura, nella trattazione di Azzerri, anche la disamina delle posizioni che si sono sviluppate successivamente, sulla scorta della riflessione originaria di Trotckij. Così alla presa di posizione di Bordiga e Tony Cliff che interpretavano l’Unione Sovietica staliniana un paese caratterizzato da un “capitalismo di Stato” dove la forza lavoro rimaneva una merce a dispetto dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, faceva riscontro l’elaborazione di Burnham e Shachtman che invece ritenevano di poter individuare nell’Unione Sovietica staliniana un paese dove era stato completamente restaurato il capitalismo. Per venire infine alle elaborazioni di Bruno Rizzi che ebbe a sviluppare una complessa teorizzazione relativa al “collettivismo burocratico” dove la proprietà dei mezzi di produzione era divenuta di appartenenza di una nuova classe – la burocrazia appunto – che non si configurerebbe né borghese, né proletaria, ma un “quid novi” che avrebbe caratterizzato anche fenomeni che coinvolgevano il mondo capitalista; e a Bruno Rizzi non manca il riscontro di Costoriadis che ritenne di poter riferire come la burocrazia sovietica si configurasse come una classe, mentre lamentava nello stesso Marx un eccessivo determinismo.
Elaborazioni e messe a punto che, nel tempo, hanno preso notevolmente le distanze dalle impostazioni originarie di Trotckij che dal suo canto aveva definito la burocrazia come una sorta di casta che si soprapponeva alle strutture socialiste, per cui, alla lunga, se il proletariato sovietico non avesse messo a punto una rivoluzione “politica” e avviato la costruzione di una autentica società socialista, i guasti e le discrasie scatenate dalla burocrazia dominante avrebbe effettivamente rischiato di determinare la restaurazione del capitalismo. Differenziazioni di fondo che, a voler stare ai fatti, per decenni hanno frammentato in maniera considerevole il fronte delle stesse forze che intendevano affrancarsi dalla soffocante egemonia dello stalinismo e ha finito con il coinvolgere gli stessi quadri che sono confluiti in vari periodi nella IV Internazionale fondata dallo stesso Trotckij nel 1938. Azzerri fornisce una ricostruzione estremamente accurata delle costanti divergenze che hanno caratterizzato in maniera quasi esoterica i congressi della IV Internazionale, con differenziazioni addirittura bizantine e scissioni messe a punto su questioni non proprio prioritarie. Ma a dispetto di questo quadro di riferimento non sempre incoraggiante, lo stesso Azzerri ritiene di poter evidenziare come il trotckijsmo abbia mantenuto una notevole vitalità e una notevole capacità di elaborazione teorica, grazie anche all’iniziativa di intellettuali estremamente prestigiosi, tra i quali Azzerri ritiene di poter individuare, a giusto titolo, i nominativi di Ernest Mandel e Daniel Bensaid.
In particolare Mandel ha sviluppato una teoria organica circa le connessioni dialettiche che uniscono le lotte del movimento operaio nei paesi a capitalismo avanzato con quelle che si sviluppano nel terzo mondo e nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”. Ma è soprattutto in materia economica dove Mandel ha dato luogo ai contributi di maggior rilievo, con uno studio delle “onde lunghe” che caratterizzerebbero il ciclo economico nel mondo capitalista, con una distinzione tra le varie fasi dell’economia di mercato opportunamente individuate in “protocapitalismo” – dove non ci sono ostacoli all’espansione del capitale sul mercato interno -, nella fase “classica” – dove l’accumulazione si diversifica a livello internazionale – , per venire al “tardocapitalismo” nel corso del quale l’accrescersi delle forze produttive sfonda il quadro dello Stato nazionale.
Contributi incontrovertibili che Azzerri ascrive con rigore e scrupolo filologico a Mandel e che poi si reiterano per Bensaid, quando l’autore ritiene di poter evidenziare nelle capacità del filosofo francese la capacità di sviluppare una riflessione su Trotckij che lo porta a valutare la disincronizzazione dei tempi e una considerazione specifica sulla validità degli “obiettivi transitori”, cioè a stimoli rivendicativi che, partendo dalle esigenze immediate delle grandi masse, li spingano a porsi obiettivi di più ampia portata. Per di più Azzerri evidenzia come per Bensaid la forma politica deve riferirsi a criteri articolati e disuguali trasmessi da una realtà complessa e di darvi riscontro con un comportamento politico generale ispirato al massimo della organicità.
Di estremo interesse risultano anche le analisi esegeticamente puntuali sulle convergenze e le differenziazioni che l’autore mette in luce tra Trotckij e i maggiori teorici del movimento comunista italiano, cioè Gramsci e Bordiga. Azzerri spiega come per Gramsci le divergenze ruotassero attorno alla nozione del “blocco storico” che nella riflessione del grande intellettuale sardo sembra antitetica allo “scontro frontale” patrocinato dall’impostazione trotckijana classica, per delineare impostazioni che prefigurano un progressivo logoramento delle posizioni del nemico di classe in una logica tendenzialmente gradualista, laddove invece per Bordiga, come sottolinea Azzerri, le divergenze ruotano attorno al rifiuto del comunista italiano di prendere in considerazione ogni rivendicazione “democratica” anche in senso tattico, per cui rigetta qualsivoglia ipotesi di validità alla prospettiva degli “obiettivi transitori” delineata da Lenin e Trotckij al III Congresso dell’Internazionale comunista.
Ma al di là della puntualità e del rigore analitico di Azzerri nel fare chiarezza su episodi e vicende storiche anche abbastanza remote, preme cogliere come l’autore, nella parte terminale del suo lavoro, evidenzi la profondità della crisi che attraversa il mondo capitalista, dove le turbolenze finanziarie e le tendenze alla sovrapproduzione si mescolino in nessi inscindibili che danno luogo a militarizzazioni crescenti e spinte a scaricare i costi sociali della crisi sulle classi subalterne. E a tutto ciò, evidenzia Azzerri, non c’è rimedio all’interno del sistema vigente, ma solo uscendo dal sistema stesso. Quindi le categorie del marxismo rivoluzionario sono più attuali che mai. E il trotckijsmo non è un residuato storico, ma l’embrione di un progetto politico estremamente attuale.