Vi sono divergenze in Podemos? Non basta ribattere che è tutta una montatura della stampa, quando in realtà la cosa è stata a essa servita su un piatto d’argento
di Miguel Urbán e Brais Fernández *
Non ci si illuda di trovare in questo articolo alcun tipo di regolamento di conti o di pettegolezzi dall’interno di Podemos. Quel che serve è proprio l’opposto: darsi una calmata, rasserenarsi, discutere, spiegarsi e prepararsi. La gente, quella che costituisce la forza del blocco per il cambiamento, guarda stupefatta alla cosiddetta “crisi di Podemos”, senza capire cosa sta succedendo. Iñigo e Pablo [1] hanno litigato? Vi sono divergenze in Podemos? Non basta ribattere che è tutta una montatura della stampa, quando in realtà la cosa è stata a essa servita su un piatto d’argento. Occorre fare lo sforzo di discutere e di cercare di capire, per poter andare avanti. Occorre scrollarsi di dosso la pigrizia intellettuale della frecciata attraverso Twitter o della pontificazione attraverso Facebook.
In questi nostri tempi dai rapidi cambiamenti, le legittimità, allo stesso modo delle certezze, sono più che mai volatili e decentrate. Il “Principe” del XXI secolo, il partito organizzato, deve vivere di una tensione creativa con il movimento, con questo general intellect plurale, disperso e mutevole. D’altro canto, è più importante che mai che vi sia un gruppo dirigente responsabile, saldo nei principi, ma anche sempre al servizio delle classi popolari.
La cosiddetta “crisi di Podemos” può trovare una spiegazione solo in questi termini. Un partito con più di cinque milioni di voti, ma con un’organizzazione di base molto debole. Un partito plurale senza pluralismo. Un partito in cui troppe volte il dibattito politico è stato sostituito dalle voci di corridoio. Un partito in cui si parla di “famiglie”, di “clan”, invece che di “posizioni” o “correnti”. Un partito che non è ancora “Principe” perché con il movimento non ha ancora instaurato una tensione creativa, quanto piuttosto una tensione molto poco costruttiva e, a volte, distruttiva. Un partito giovane e vivo che si ammala ogni mese. Un partito pieno di accordi e disaccordi.
Certo, c’è consenso su molti aspetti fondamentali: sulla necessità di spazzar via i vecchi partiti, sull’urgenza di superare i limiti culturali e politici della vecchia sinistra, o sull’imperativo di essere strumento dei molti, non di pochi. C’è consenso anche su altri punti che non dovrebbero essere considerati fondamentali, ma che hanno la loro importanza: per esempio, sulla leadership di Pablo Iglesias, che in molti, al di là delle divergenze, riteniamo essere un dirigente di grandi capacità intellettuali, capace come nessun altro di entrare in sintonia con quelle e quelli “di sotto”. Infine, come ai tempi di Marx, quando a tutti piaceva Hegel, quantunque alcuni lo leggessero da destra e altri da sinistra, a noi tutti piace Gramsci, quantunque alcuni siano “gramsciani di destra” e altri lo siano “di sinistra”.
Ma su molte altre questioni non c’è stato consenso. Non c’è stato consenso sul fatto di costruire strutture democratiche di base capaci di funzionare e di fungere da contrappeso, di essere il vivaio da cui attingere i dirigenti. Al contrario, si è optato per un modello plebiscitario, in cui non si dibatteva, non ci si accordava, ci si limitava ad aderire. Non c’è stato consenso sulla formazione di un partito-movimento che potesse raccogliere e far proprio, senza chiedere adesioni incondizionate, tutto il ricco patrimonio di attivisti prodotto dal 15 maggio [2]. Si è optato per la “macchina da guerra elettorale”. Non c’è stato consenso sull’abbandono delle grandi linee programmatiche rupturistas [3], come i processi costituenti, la democratizzazione dell’economia mediante la socializzazione dei settori finanziari e produttivi strategici, o misure radicali contro la crisi e l’erosione dei salari come il reddito minimo. Non ci siamo trovati d’accordo, e si è moderato il programma, adottando una cornice keynesiana, che per l’uscita dalla crisi si affidava a misure palliative demandate a un governo futuro, invece di basarsi sull’autorganizzazione della classe, popolare, sul conflitto.
Vi sono state molte divergenze: noi continuiamo a pensare quello che pensavamo prima, e non è una tragedia. Sosteniamo le nostre posizioni apertamente e ci sforziamo di convincere che queste sono le migliori per garantire il cambiamento.
Però, dato che Podemos è un partito di paradossi, curiosamente è proprio il modello [di partito] vincente che ora si ritorce contro chi lo ha voluto. La destituzione di Sergio Pascual [4] è avvenuta sulla base dello statuto e nel rispetto del modello di partito approvato a Vistalegre [5]. Pablo Iglesias ha usato i suoi poteri di segretario generale per destituire uno dei maggiori fautori del modello Vistalegre, basato sulla costruzione verticale e autoritaria, sul famoso “giro al centro” politico, un modello plebiscitario-populista che per troppi aspetti imitava quello dei partiti comunisti del XX secolo, senza però averne lo stesso retroterra in fatto di forze sociali vive. I dimissionari del Consejo Ciudadano di Madrid e Sergio Pascual stesso appartengono al settore che ha elaborato, sostenuto e fatto passare il modello-Vistalegre.
E tutto ciò è avvenuto, casualmente o meno, proprio mentre Pablo Iglesias sta approfondendo l’idea di costruire un campo popolare differenziato, non subalterno, antagonista rispetto alle élites, e la sua figura, ricordando in questo quella di Anguita [6], diventa il bersaglio su cui si concentrano tutti i proiettili del regime. Ci troviamo, per dirla con Gramsci, di fronte a un caso di “cesarismo progressista”: «è progressivo il cesarismo quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare, sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria» [7]. E cioè: sembra che Pablo Iglesias avanzi (un curioso avanzare tornando indietro) verso posizioni più genuine, che ricordano quel Podemos di lotta e di governo che nei meeting faceva venire la pelle d’oca. Ma lo fa ancora all’interno della cornice di Vistalegre, una cornice piena di limiti, di trabocchetti burocratici e insufficienze.
Ora si tratta di andar oltre, in due sensi. Tatticamente, dobbiamo evitare altre iniziative irresponsabili, che alimentano l’idea di una crisi, mentre quello che dovremmo fare è prepararci, con discussioni, nell’unità a partire dalla pluralità, per far fronte ai due scenari imminenti: o una grande coalizione o nuove elezioni. Strategicamente, ciò che in questi giorni è avvenuto in Podemos dovrebbe preludere a una profonda riflessione sul partito-movimento di cui hanno bisogno le classi popolari. E per far questo non basta pronunciarsi, occorrono fatti concreti. Nel Consejo Ciudadano Autonómico di Madrid si è inaugurata una nuova tappa: deve inaugurarsi in Podemos tutto. Questo deve essere il punto di partenza: tornare a rivolgersi a tutti coloro che un tempo si sono avvicinati a un circolo, ma non vi sono rimasti, anche se poi hanno votato per Podemos. Tendere la mano agli attivisti, ai movimenti sociali, al sindacalismo, rispettando la loro autonomia, in modo che comprendano che Podemos è il loro partito. Dobbiamo accettare il fatto che per vincere possiamo essere in un sol modo: pluralisti, democratici, radicali senza essere identitari. Non c’è crisi: lì, all’esterno, c’è un mondo intero da conquistare.
- Miguel Urbán è eurodeputato di Podemos mentre Brais Fernández fa parte della segreteria di redazione di «Viento Sur». Entrambi sono militanti diAnticapitalistas.Traduzione e note di Cristiano Dan.
Note
[1] Íñigo Errejón è segretario politico di Podemos, mentre Pablo Iglesias ne è il segretario generale.
[2] 15 maggio 2001: l’inizio del cosiddetto movimento degli Indignados.
[3] Cioè di rottura netta con il sistema politico emerso dalla Transizione, con il compromesso fra il regime e le forze democratiche (il Continuismo),
[4] Segretario organizzativo, da cui dipendevano i rapporti con le strutture territoriali, destituto da Iglesias in seguito a una serie di dimissioni verificatesi nella direzione regionale (Consejo Ciudadano Autonómico) di Madrid, che erano state precedute da altre crisi, con svariate cause, in Catalogna, Paesi Baschi, Galizia, Cantabria e La Rioja.
[5] Palacio Vistalegre di Madrid, dove nell’ottobre 2014 si è tenuta l’assemblea di fondazione, ufficiale, diPodemos.
[6] Julio Anguita è stato segretario di Izquierda Unida dal 1989 al 2000, anni di massimo sviluppo, anche elettorale, della coalizione, che con il suo successore, Francisco Frutos, cominciò a declinare.
[7] Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 619.
[L’articolo originale è stato pubblicato il 17 marzo 2016 nella Tribuna abierta di «El Diario», e ripreso dal sito di «Viento Sur» il giorno successivo.]
Tags: Podemos anticapitalistas Spagna
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