Uccisi i 5 presunti rapitori di Giulio. Prove superficiali, mezze verità, smentite e depistaggi. Così aumentano i sospetti sul possibile coinvolgimento del regime di al-Sisi
di Mauro Saccol*
A due mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni, il Ministero dell’Interno egiziano ha emanato un comunicato in cui si afferma che le forze di sicurezza avrebbero trovato e ucciso i suoi sequestratori e aguzzini. Nell’appartamento della sorella di uno dei componenti della presunta “gang” di rapitori, inoltre, sarebbero stati rinvenuti i documenti di Giulio (passaporto e tesserino universitario) e altri oggetti a lui appartenuti.
Tuttavia, tale versione non può certamente mettere una pietra sopra su quanto accaduto, poiché presenta troppe falle per risultare credibile. Innanzitutto, seppur il Ministero abbia affermato come la banda fosse specializzata in furti e sequestri di turisti e stranieri, negli ultimi mesi in Egitto nessuna ambasciata o consolato straniero ha riportato eventi di questo tipo. Inoltre, i membri della suddetta banda sono tutti morti, pertanto non potranno difendersi in un eventuale processo che li veda imputati per la morte del ricercatore italiano. A conferma della fragilità della versione è arrivato un comunicato della Procura del Cairo che ha smentito qualsiasi relazione tra le persone uccise e la morte del nostro connazionale.
La strada intrapresa dal regime egiziano nella risoluzione del caso Regeni era già chiara sin dal principio. I tentativi di depistaggio sono iniziati già dal ritrovamento del cadavere, dapprima affermando come il ricercatore fosse morto in un incidente stradale, poi come fosse stato rapito e ucciso da terroristi, in seguito con l’arresto di alcuni delinquenti comuni (poi rilasciati), per proseguire con il presunto ritrovamento di un video che riprendeva una colluttazione, vicino al Consolato italiano, in cui Regeni era coinvolto.
Il governo italiano ha emanato un comunicato affermando che si faccia piena chiarezza sulla questione, tuttavia si potrebbe fare ancora più pressione sul regime egiziano. Uno stato di diritto, qual è quello italiano, non può permettere che, in una questione così seria, vengano fornite verità di comodo o spiegazioni frettolose. Uno stato di diritto, fondato sul rispetto della vita umana, della Costituzione, delle leggi, non può accettare che i responsabili di un simile crimine siano dei cadaveri che non possono più parlare e difendersi; non può accettare che gli interessi economici prevalgano sulla ricerca di una verità che appare sempre più coperta da una coltre di nebbia creata ad arte; non può accettare che vengano fornite prove superficiali o, peggio ancora, che le stesse prove siano eventualmente fabbricate.
Ciò che la famiglia e gli italiani vogliono non è una giustizia sommaria, bensì un’indagine precisa, dettagliata, condotta secondo i canoni del diritto egiziano e internazionale. Il regime di al-Sisi, negli ultimi due anni, si è contraddistinto per le condanne a morte di massa o sentenze politicizzate. Tuttavia, se in questi casi il regime si giustificava avanzando il principio della sovranità nazionale, nella vicenda Regeni tale barriera non potrà riparare l’Egitto dall’assumersi le proprie responsabilità.
I continui palliativi che il regime sta tentando di fornire all’opinione pubblica internazionale non fanno altro che aumentare i sospetti, già forti sin dall’inizio, che lo Stato egiziano sia direttamente implicato in tale questione. Se al-Sisi voleva distogliere l’attenzione internazionale dal suo paese, con queste mosse infantili ha ottenuto solamente l’effetto contrario.
*Dottorando in Democrazia e diritti umani presso l’Università di Genova