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Vino. Alla scoperta del Timorasso

Viaggio nelle Colline tortonesi per raccontare un vino quasi perduto, oggi riscoperto, e chi lo produce, il Timorasso

di Ludovica Schiaroli

Daniele Ricci

Di quello che fino a trent’anni fa era considerato il triangolo industriale d’Italia, non è rimasto granché, le grandi fabbriche hanno lasciato posto a centri commerciali: Genova, Torino, Milano, sempre la stessa storia. Oggi, in piena crisi, l’unica risorsa rimasta è l’agroalimentare.

Accade così che la visione di un uomo possa rilanciare l’economia di un territorio, una piccola storia esemplare su quanto la tradizione e la qualità possano fare la differenza. Si tratta di Walter Massa, l’uomo che capì, anzitempo le potenzialità del Timorasso, vitigno praticamente sconosciuto e per lungo tempo abbandonato, che però non ha niente a che invidiare al più nobile cugino langarolo, il nebbiolo.

Per assaggiarlo bisogna andare sui Colli tortonesi (provincia di Alessandria) che distano circa 70 km da Milano, 110 da Genova e altrettanto da Torino, al centro insomma di quello che fu il triangolo industriale! Ed in questo paesaggio ancora incontaminato che il Timorasso cresce e regala un vino sorprendente: scontroso al primo assaggio, ha bisogno di tempo per farsi conoscere, ma alla fine regala grandi emozioni.

Walter Massa ha vinto la scommessa. Nel 1987 nessuno ci credeva, ma lui, testardo, lo ha rimpiantato, lo ha fatto conoscere, fiera dopo fiera, e oggi guida un gruppo di viticoltori che vendono il loro vino in tutto il mondo. Poca quantità, alta qualità, la regola comune.

Una visita al territorio è consigliata, soprattutto per capire il legame che c’è tra uomo e vino, per comprenderne il terroir, per dirla alla francese. “C’è voluta tutta la mia vita per arrivare fin qui, c’è voluto tutto l’amore che ho per questa terra per poter dire oggi: sono un vignaiolo!”. Daniele Ricci ha le idee chiare, la sua azienda nata nel lontano 1929 ha ricominciato a produrre Timorasso solo vent’anni fa, ed è da pochi anni che lui ha abbandonato il suo vecchio lavoro per dedicarsi completamente all’azienda di famiglia. Nel cuore dei colli orientali del Piemonte, a Costa Vescovato, Ricci fa un vino completamente biologico, che per prima cosa deve piacere a lui: “niente lieviti selezionati che rendono il vino tutto uguale; per prima cosa, il vino che faccio deve piacere a me – spiega – e deve raccontare questa terra fatta di marna bianca che poi invecchiando regala nel bicchiere mineralità e grande profondità”. Sono vini longevi quello che si bevono da queste parti. Seduti al tavolo dell’agriturismo dell’azienda iniziamo ad assaggiare i vini: Timorasso 2013 (è il più giovane), profumi di fiori, agrumi, grande acidità e mineralità; si passa poi al Timorasso San Leto 2011, anche qui si trovano grandi profumi e grande mineralità ma tutto più intenso e profondo, eppure entrambi i vini hanno fatto solo acciaio! “D’altronde, racconta ancora Ricci, il lavoro è tutto in vigna, il vignaiolo è come il guardiano del faro, deve controllare che tutto proceda bene e poi una volta in cantina grande pulizia e controllo temperatura”. Il Timorasso Giallo di Costa 2011 lo beviamo a temperatura ambiente, come un rosso, ottenuto dopo una lunga macerazione sulle bucce, “è quasi fuorilegge, proprio per la lunga macerazione, che arriva fino a dicembre”, è un vino che racconta questa terra “quello che mi rappresenta meglio”, un orange wine che non ha niente da invidiare a vini più famosi con prezzi molto meno accessibili.

Il Timorasso San Leto 2009 è l’unico che vede un po’ di legno, per la precisione tonneau di acacia, che però non sovrasta in nessun modo il vitigno, conferisce solo una maggiore eleganza e morbidezza. Ma la sorpresa sono le 1000 bottiglie di un vino personale, unico, che ha riposato sottoterra dal 2007 al 2015 in bottiglie da un litro e mezzo ed è stato poi rimbottigliato e porta sull’etichetta le date di nascita della famiglia. “E’ stato un gesto emotivo farlo”, racconta Ricci mentre ne descrive la mineralità, ne individua i profumi e alla fine commosso dice che non lo rifarà più.

E poi ci sono i rossi, barbera, nebbiolo, croatina (quest’ultimo non l’abbiamo assaggiato perché la bottiglia andava aperta tre ore prima) anche loro diritti, eleganti e schietti e un po’ severi come il vignaiolo che li ha prodotti.

Colline tortonesi

Non potrebbe essere più diverso Paolo Ghislandi dell’azienda agricola I Carpini, esuberante, entusiasta e appassionato gira tra i filari raccontando, come fosse la prima volta che lo fa, la storia di questa terra. Lombardo, si trasferisce sui Colli Tortonesi con la famiglia nel 1998. “E’ stata una scelta di vita, avrei potuto fare altro ma mi sono innamorato di questa terra – racconta – prima di aprire la cantina ho aspettato qualche anno, ho voluto misurare scientificamente ogni aspetto, sentire la terra, capire l’anima di questo territorio”. Un approccio olistico, spiega, dove tutto quello che circonda la cascina contribuisce a creare il vino che verrà prodotto. Per questo Ghislandi controlla attentamente ogni passaggio in cantina, ma soprattutto ci tiene a mantenere un perfetto equilibrio con l’ambiente circostante. Anche i cinghiali che popolano il boschetto lungo il fianco della collina sono i benvenuti, ma a distanza: i filari che si snodano vicino al bosco sono di cabernet sauvignon, qualità un po’ pepata e per questo poco apprezzata dagli ungulati, che dopo averne assaggiato qualche chicco se ne allontanano. “Si mangia male qui, penseranno”, dice ridendo.

Le vigne della cascina “I Carpini” si estendono nella frazione di San Lorenzo nel Comune di Pozzol Groppo, esposte a sud est affondano le radici in un terreno fresco e ben drenato, arricchito dal passaggio di falde acquifere, “qui nasce l’acqua termale di Salice Terme” aggiunge Ghislandi; ecco spiegata la mineralità e la sapidità che poi si ritrova nel bicchiere! Tutto è curato per avere il minor impatto nell’ambiente, per salvaguardare la biodiversità del territorio, che è quella che poi protegge la vigna. In vigna non vengono utilizzati concimi, così come in cantina non si fa uso di lieviti selezionati, ma quello naturale che si trova sulle bucce. “La fermentazione spontanea è una sinfonia di note – racconta – dove io mi limito a controllare agendo solo sulla temperatura”. Mentre Ghislandii parla ci guardiamo intorno e siamo circondati da un paesaggio rurale e incontaminato, un microcosmo che sopravvive tra le regioni più industrializzate del nord Italia: Emilia, Piemonte, Lombardia.

Anche la degustazione non è quello che ci si aspetta. La sfida a cui ti sottopone Ghislandi è affrontare la vasca dove il vino sta riposando, pronto (quasi) per essere imbottigliato; te lo spilla in un bicchiere grande e poi lo suddivide tra i bicchieri dei commensali. Non ci sono fingimenti, quello che trovi nel bicchiere è quello che lui ha raccolto, lavorato, fermentato. Niente trucchi, facendosi beffa della legge del marketing e delle “regole” dell’accoglienza. E’ veramente sorprendente assaggiare vini ancora in fieri e sentirne già la piacevolezza, la mineralità, la sapidità, il frutto pieno e maturo. Rugiada del mattino 2013 e Brezza d’estate 2011 sono i due Timorasso assaggiati in vasca: quest’ultimo fa lunghi periodi di macerazione sulle bucce e viene imbottigliato dopo 5 anni.

Ghislandi li chiama “vini d’arte”, e non sbaglia! La tecnica, racconta, è lasciarli in vasca il più possibile e poi dimenticarli in bottiglia. Accade così di assaggiare spettacolari Timorassi del 2008 che ancora mantengono intatta tutta la loro freschezza e acidità o l’azzardo del Timorasso in anfora, infinito e sorprendente: un orange wine estremo e godibilissimo. O passando ai rossi, le sperimentazioni fatte con le barbere e i cabernet sauvignon (non sono solo per i cinghiali) che rappresentano un mix di tradizione piemontese ed eleganza francese.

Le sorprese in queste terre di confine non mancano.

Altri produttori di Timorasso

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