Pannella aveva una memoria formidabile e un passato grazie al quale poteva dare del tu a molte generazioni della sinistra di questo paese. Ecco il racconto della prima vita di quella che sarà la testata del Prc
di Checchino Antonini
Ho conosciuto Marco Pannella in una delle mie vite precedenti. Ero un redattore di Liberazione, e ho voluto incontrare il suo fondatore poco prima che quel quotidiano morisse per i tagli di Tremonti e per la crisi di chi avrebbe dovuto scriverlo e leggerlo. Bene, il fondatore dell’organo ufficiale di Rifondazione era Giacinto Pannella detto Marco. Perché quel giornale ha avuto una prima vita in cui la rosa nel pugno spiccava a fianco della testata e quelle pagine arrivavano in edicola in mezzo a Lotta continua. Era l’autunno prima del referendum sul divorzio. Il 1973.
Pannella prese sul serio la richiesta d’intervista e scelse la strada più lunga: «Sono a vostra e tua completa e liberista disposizione. Ciao Marco». L’appuntamento fu in un pomeriggio di settembre del 2010 nella sede del Partito radicale di fronte all’unica raccolta di Liberazione prima serie. Non sarà la solita intervista. Curiosità: al piano sotto i radicali, in questo palazzo incastonato tra il Pantheon e Torre Argentina, ci sono le suore operaie. Fine del “colore” perché il racconto di Pannella sarà denso. E lo facciamo cominciare da quel giorno dell’estate del ’91 in cui su queste stesse scale salgono Sergio Garavini, Armando Cossutta ed Ersilia Salvato, fondatori del neonato Movimento della rifondazione comunista. «Era la prima visita a un partito in quella loro veste. Armando spiegò che Liberazione era il nome giusto per chi voleva intraprendere la via di un comunismo libertario. C’era la suggestione del quotidiano francese fondato da Sartre…». I dirigenti del futuro Prc erano disposti a trattare un prezzo equo.
Pannella non ci pensò un istante: «E’ vostro, venite da compagni, prendetelo: vuol dire che per voi è il nome giusto». Ecco un retroscena degno di essere ripescato dalla memoria. «Liberazione nacque da una sottoscrizione tra i compagni – ricorda Marco Pannella – e dai residui della mia liquidazione dal Giorno». Cruciale l’accordo con «Adriano» per la distribuzione. Adriano è Sofri, leader di Lotta continua ma il foglio radicale non avrà vita lunga nel quotidiano più irriverente di quella stagione. Si dovrà andare in edicola da soli. Sfogliammo insieme la raccolta rilegata. I temi fissi sono l’antimilitarismo, l’antiproibizionismo, la denuncia delle torture in galera, dello strapotere dei baroni nelle università, il malgoverno della Dc. E, naturalmente, i referendum di cui la sinistra extraparlamentare stava cogliendo il carattere «antiregime». «E’ tutta roba di oggi», osservava Pannella. Lo strumento referendario era stato coniato dopo le pressioni vaticane che volevano cancellare la legge Fortuna, quella che istituiva il divorzio. E si capovolse nel suo contrario.
Quella vittoria fotografò un’altra Italia. «Ma mica fu facile: Longo, nel ’43, aveva definito una jattura il referendum. E a sinistra si scatenò un forte dibattito sull’opportunità dei nostri referendum prima dello svolgimento di quello sul divorzio». Ad accenderlo fu un celeberrimo articolo di «Rossana». Rossanda, of course. E Marco ricorda ancora mentre le pagine – formato grande – ripercorrono quei mesi. La polemica con l’Udi sull’urgenza di una legge sull’aborto, la necessità di una giustizia da riformare, la lotta contro l’austerity, i paginoni su “Repressione sessuale e oppressione sociale”, Il “Caso Curti”. Domando. «Era un detenuto qualsiasi, sposammo la sua causa per mostrare la condizione dei “comuni”.
Ancora un titolo: “Strage di Milano, processo fra dieci anni”. Mi risuonano le parole di poco prima: «E’ tutta roba di oggi». Il racconto di Marco è intenso e l’accoglienza è fraterna. «Ogni giorno facevamo tardi nelle tre stanze in affitto nel cortile di Lotta continua, seguivamo i piombi, eravamo allergici alla revisione delle bozze». Non ci sono firme nelle annate che sfogliamo. Non si usava. Pannella era direttore di questo e di un’altra quindicina di fogli, altri giornalisti radicali – Spadaccia o Bandinelli, per dire – ne firmavano un’altra manciata per garantire la libertà di stampa messa in forse dalle norme sull’ordine dei giornalisti. «Solo Terracini votò contro quella legge». E «Umberto» figurerà spesso nelle pagine di quella Liberazione tra i nomi dei sostenitori. Si legge in un quadratino: 12 ottobre, concerto del cantautore Francesco Guccini al Folkstudio. Il ricavato sarà destinato a Liberazione. L’entusiasmo di Pannella diventa contagioso quando ci avviciniamo alle pagine più prossime alla scadenza del 12 maggio 74. A gennaio «Lib», lo abbreviavano così, rivela i sondaggi segreti del Vaticano: 65% i No e 18% gli indecisi. «Ma ci vollero altri mesi perché il Pci ci credesse davvero». La notte della vittoria Liberazione era in piazza con un titolo cubitale: “Il No ha vinto”. «Lo stampammo il sabato, fu un vero azzardo!. E montammo il palco di Piazza Navona per la festa finale. Naturalmente avvertimmo quelli del Sì che se avessimo perso lo avrebbero pagato loro».
Poi Liberazione diradò le sue comparse fino a lasciare spazio alla radio. La Radio. Chiedo: «Ma non ti manca la carta?». E scopro che i radicali hanno prodotto una valanga di altri giornali, dai titoli bizzarri come “Il caffé”, “Il cappuccino”, “Il contratto”. O più trasparenti come “Terzo stato” o “Il Partito nuovo”, prodotto in otto lingue quando diventò transnazionale il partito nato nel ’55 lo stesso giorno in cui negli Usa veniva arrestata Rosa Parks che si rifiutò di lasciare a un bianco il posto sull’autobus. Disobbedienze destinate entrambe a lasciare il segno. Comunque a Pannella, bravissimo a confenzionare i volantoni elettorali, veri e propri giornali a numero unico, la carta gli manca davvero: «Dovremo farlo». E se gli dici che “Partito nuovo” ti sembra una suggestione togliattiana ti spiazza ancora rivelandoti che lui l’ha presa da Salvemini del periodo del “Non mollare”, anni Venti. Ma la storia più che trentennale della “sua” radio è sufficiente per discutere del rapporto partito-giornale: «Un direttore fuori-linea (ma le linee radicali sono molte) è un valore aggiunto», ripete Marco Pannella. Per i radicali, la galassia che sta attorno al partito è fatta di «soggetti autonomi». E lui giura di «vivere le contraddizioni come una ricchezza». Allora la prendo alla larga: «Non ti pare che oggi esista un paradosso, che gli unici giornali liberi siano quelli che si sottraggono al mercato, visto che il mercato è drogato?». Allora lui rivendica la storia di Radio Radicale che «prende gli stessi soldi di Libero ma per fornire un servizio pubblico, la trasmissione dei lavori delle Camere, l’archiviazione (non l’immagazzinamento, bada) dei tanti convegni: Radio Radicale è l’esempio di come una cosa di interesse pubblico possa essere gestito meglio da un privato, uno dei nostri slogan dice che “per questo è di tutti”». Su una cosa siamo d’accordo: «Che può anche succedere il contrario». E siamo in sintonia – così mi pare – anche sul fatto che «sono anni che cercano di tagliare i fondi». E allora questo mercato, provo ad azzardare: «Il mercato ci deve stare ma, come la biodiversità, deve essere governato dall’uomo. Attenti: il liberismo è questo, sennò è la jungla». Stavolta è impossibile polemizzare con Pannella. E ancora mi spiazza: «La storia comunista credo di viverla come mia». E sciorina nomi di giovani come lui che stavano nella sinistra universitaria del Cudi (Centro universitario democratico italiano) con lui. Li ricorda con amore – Notarianni, Ledda, Baduel e qui mi fermo, la sua memoria è un fiume. «Chi è rimasto – dice – è restato bruciato dentro. C’è una quota di rassegnazione cinica, sono diventati “saggi”, hanno imparato a non esigere nulla dalla speranza». Gli scappa un nome, Massimo. Pannella dava del tu a parecchie generazioni della sinistra e rivendica la sua lunga «teoria di formiche attorno al Partenone», l’epopea radicale fatta di battaglie quotidiane, oscurata dalle tv: «Non mi vogliono mai in diretta, non veniamo mai invitati ai dibattiti culturali. Bruno Vespa ha ammesso che, quando entrò alla Rai, nel ’59, apprese subito: “Mai mandare in diretta Pannella”. Vale ancora. Quanto a barbarie il “Sessantennio” non ha nulla da invidiare al Ventennio».
Grazie Checchino per questa bellissima testimonianza, cercavo un modo per ricordarlo che non mi facesse venire in mente cose poco piacevoli, e tu ci sei riuscito!