Intervista con Mahi Binebine, artista e scrittore marocchino che combatte la mafia religiosa con la cultura: «Perché fermare persone che si fanno esplodere non si fa in un giorno»
di Checchino Antonini
Dopo aver ascoltato la sua storia ho capito che le grandi risate di Mahi Binebine sono l’epifenomeno della sua voglia di vivere. Una voglia così grande che ha deciso di condividerla con chi ne ha più bisogno. Mahi si aggira in un basso dell’Esquilino che cela lo studio del suo amico Jaber, pittore iracheno da 40 anni a Roma. Non capisco quello che si dicono in arabo ma li osservo ridere di gusto.
Mahi Binebine, pittore, scultore, scrittore, 57 anni, era tornato definitivamente a Marrakech da un anno quando, il 16 maggio del 2003, a Casablanca, 14 ragazzi si fecero saltare in aria, «senza nostalgia per i loro diciott’anni di miseria», in cinque attentati che seminarono, per la prima volta in Marocco, 41 morti.
Fino ad allora Mahi era vissuto tra Parigi (dove ha insegnato matematica per otto anni), New York e Madrid. Quelle bombe squarciarono il velo che impediva a gran parte dei marocchini di capire che nessuno era immune dall’odio fondamentalista. Specialmente se il cocktail che fabbrica kamikaze è sempre lo stesso. Mahir volle andare a vedere da dove arrivavano i quattordici attentatori e scoprì Sidi Moumen, baraccopoli di 300mila persone, a ridosso della strada che da Casablanca va verso la capitale Rabat, nascosta ad arte da una muraglia.
«Dimenticata da ogni dio» ma non dalla «mafia religiosa», dice Mahi ricordando quei ragazzini che vide giocare a pallone sulla spianata di una discarica, la stessa dove andavano rovistando tra colline di rifiuti. «La mafia strumentalizza la religione – precisa Mahi – per un progetto politico preciso. Sono i ceti alto borghesi ad essere mafiosi, cioè mostruosi, quando pagano 100 euro al mese la donna che va nelle loro case a fare le pulizie». I mostri non bisogna andarli a cercare in posti come Sidi Moumen.
Potevi passeggiare nel nostro quartiere senza nemmeno accorgerti che esisteva. Un alto muro merlato in terra battuta lo nascondeva dal boulevard dove un flusso ininterrotto di macchine fa un rumore infernale. In quel muro avevamo scavato fessure simili a feritoie dalle quali potevamo contemplare a piacere l’altro mondo. Il nostro gioco preferito, quando ero bambino, consisteva nel versare ciotole di piscio sui ricchi e restare in silenzio mentre quelli, guardando il cielo, imprecavano e lanciavano insulti.
Mahi voleva capire chi fossero quei quattordici suicidi e raccontare la loro storia. Da lì è nata la storia (di cui abbiamo citato l’attacco) di Yashin, Hamid, Nabil, Fouad, Khalil e Azzi, protagonisti di Les etoilles de Sidi Momen, “Il grande salto”, il romanzo che Binebine ha scritto nel 2010 e che, finalmente, Rizzoli, ha deciso di tradurre e far uscire in Italia. L’autore, infatti, è di ritorno dal classico giro promozionale al Salone del Libro di Torino.
«Tutti vedono quei ragazzini come mostri – racconta ancora – nessuno li immagina come ragazzini». Come li ha visti lui su quella discarica che giocavano tra l’immondizia. Vittime prima di essere anche carnefici. «Il mostro è chi permette che vivano in un posto del genere, senza acqua, tra fogne sventrate, tetti di lamiera ondulata, miasmi e freddo, tra pensieri oscuri e miseri. Il mostro è lo Stato, lo stato del Marocco che certamente non è povero. E la mafia religiosa, appunto, che in quelle bidonville mette radici».
Il romanzo è nato così, per proteggere quei ragazzini. L’ha scritto in francese ma ha preteso, Mahi, che fosse subito fatta la traduzione in arabo e la diffusione in Marocco a prezzi stracciati a costo delle proprie royalties. E dopo il romanzo il film, Les Chevaux de Dieu, I cavalli di dio, due anni dopo. Un trionfo a Cannes, e 19 premi in giro per festival, per lui e il regista Nabil Ayouch.
«Non abbiamo potuto girarlo a Sidi Moumen, troppo pericoloso – ricorda – ma in una bidonville a una ventina di chilometri. I dodici protagonisti sono ragazzini di lì». Mahi, che seguiva le riprese del film, li ha visti trasformarsi sotto i suoi occhi in quelle settimane di lavorazione. Miglioravano nell’umore, nell’incarnato, nel peso. «Perché potevano mangiare, riempirsi finalmente il piatto come se non ci fosse un domani. E’ stato in quei momenti che ci venne l’idea di fare qualcosa per loro. Così, con Nabil, decidemmo di restituire a loro i soldi del premio di Cannes». Ma ce ne volevano altri e Binebine convoca tutti gli artisti possibile per un’«asta leggendaria», era il 2013, per raccogliere il denaro necessario a costruire les Etoilles de Sidi Moumen, stavolta un centro culturale sorto su un terreno messo a disposizione dalla prefettura: caffé, scuola di danza, un cinema da 200 posti, mediateca, insegnanti dei centri culturali stranieri (di Francia, Germania, Spagna e Usa) che danno gratis lezioni di lingua.15mila volumi a disposizione di tutti e 500 metri di mura, tutto attorno, dipinte da artisti di strada venuti apposta. «Puoi trovare un uomo barbuto che accompagna la nipotina in tutù rosa alla lezione di danza». E da come Mahi ride ancora sembra che sia questa la cartolina di quello che voleva fare. Il giardino, poi, è «splendido», opera di architetti paesaggisti e ragazzi del luogo che hanno piantato gli alberi e ora ne hanno cura. «Sistemate la vostra città – è il messaggio – nessun altro lo farà per voi».
I primi a fare la guerra a Nabil e Mahi sono state le associazioni religiose. «Volevano quel terreno. E volevano quei ragazzini. Sono molto ricche, ricevono soldi, molti, da paesi fascisti (dice proprio così, ndr) come Arabia Saudita e Qatar. Ora c’è la nostra cultura della vita contro la loro cultura della morte». C’è stato un sit-in islamista, trecento barbuti, l’anno scorso, davanti al centro dopo l’uscita di Much love, altro film di Nabil che ripercorre il cammino di quattro prostitute di Marrakech che si fanno coraggio per superare le umiliazioni subite. «Urlavano che avremmo trasformato in puttane anche le loro figlie – dice lo scrittore – abbiamo avuto paura. Ma le donne, sono state le madri di quei bambini a cacciarli: hanno cacciato i loro maschi». Gli torna la risata che ho imparato ad apprezzare quando spiega i «miracoli» realizzati dal centro. «All’inizio eravamo in due, e finora abbiamo sempre trovato i soldi per i dieci operatori che mandano avanti le attività. Siamo campioni del mondo del mendicare. Ogni volta che qualche banchiere compra un mio quadro gli “estorco” una donazione per il centro che ora può funzionare in autonomia».
Quattrocentotrenta iscritti e almeno altrettanti che non possono nemmeno pagare i dieci euro l’anno di iscrizione. Il cinema è quasi gratis ma si paga, costa un dirham, quaranta volte meno di una sala normale. Chi non ha nemmeno quello può negoziare come si usa nei suq. E’ una questione di dignità. «L’anno scorso è passato un signore e ha girato nel centro per un’ora. E’ un marocchino di religione ebraica, ha fatto fortuna negli Usa e ha deciso di aiutarci finanziando altri centri a Fez ed Essaouira. A Tangeri, invece, hanno detto no perché non vogliono Nabil». Anche gli artisti e i teatranti, prosegue Binebine, erano diffidenti finché «non hanno compreso, grazie a un paziente lavoro di mediazione, che quello spazio è anche loro».
I progetti crescono: Mahi è reduce da un tour in Germania dove il governo punta a costruire programmi di prevenzione che ricalchino la lezione di Sidi Moumen: «Perché fermare persone che si fanno esplodere non si fa in un giorno, bisogna intervenire prima che si radicalizzino. L’Europa ci guarda con interesse perché il problema è la marginalità di gente parcheggiata in palazzi che contano anche 4mila abitanti nelle banlieue. E’ lì che s’è installato l’islamismo wahabita. E l’Europa se n’è accorta solo quando qualcuno s’è fatto esplodere». Ancora: sta per nascere a Ouarzazate il più grande progetto di energia solare del mondo. Nella cittadella che si svilupperà troverà posto un altra Etoille. Proprio come a Marrakech dove, in occasione del Cop 22, il seguito di Cop21 previsto in autunno, nascerà un centro proprio in una delle dieci scuole dismesse della città. Ed è la scuola dove è cresciuto Mahi che, per il Cop 22, ha scolpito in bronzo un uomo che protegge la terra, con evidenti citazioni di Rodin: «Gli artisti non sono figli di puttana, hanno tutti un padre e una madre», dice divertito citando un suo collega rom spagnolo, Bonifacio. Risate come la sua, può darsi, seppelliranno i fascisti barbuti.
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