Non fosse stato il noto collasso, il 23 maggio Andrea Pazienza avrebbe compiuto 60 anni e, nelle sere etiliche qualcuno immagina cosa ne sarebbe stato di lui: pittore, tassista, rockstar…
di Checchino Antonini
«Da quando non ci sei – vado a memoria – Bologna non c’è più / se l’hanno presa loro / è un cumulo di noia / che spendi e paghi caro. Non ti sei perso niente, Paz. Vuoi mettere risorgere?» Era il 16 giugno di 28 anni: «Noto fumettista stroncato da un collasso». E una generazione prese a piangere come se non ne avesse avuto abbastanza tra rockstar uccise dalla sregolatezza, compagni ammazzati dalla repressione, dalle carceri speciali o dai fascisti, fratelli stroncati dalle pere, compagni di strada morti dentro, lentamente, di riflusso.
Pazienza Andrea, classe 1956, sperimentò tutto questo, o gli passò vicino, eccetto l’ultima variante per la quale gli mancò la voglia e certo il tempo. «Mi manchi, mi manco», scriverà Daniela Amenta, voce indimenticabile (nel senso che ora è lontana dai microfoni) della migliore radiofonia, avvezza a scrivere di rock. E dunque di rockstar. Perché Pazienza, si sosterrà di seguito, è soprattutto questo: la colonna sonora migliore dei nostri anni peggiori. Proprio come cantano i Gang citati nel leed. Di lui e dei suoi personaggi non si potrà mai dire quello che si può sostenere di Corto Maltese: quello un personaggio cui si delega la voglia di un’avventura che altrimenti non ci si potrebbe permettere; Paz e i suoi – personaggi, pennarelli, scarabocchi, sturiellet – sono l’impasto di autobiografia, visioni e fiction di cui è fatta la nostra vita.
Precursore della graphic novel, Paz l’anticipa e la smonta come smonta la gabbia della pagina inventando linguaggi creoli mentre legge i muri del settantasette e ne sente i rumori dalla Radio, quella radio, Alice, terrorizzato dalla paura di restarne tagliato fuori. L’invito a sovvertire gli stili di vita imposti resterà costituente del suo ritmo – parola che gli piaceva assai – fin da quando iniziò a dipingere. Perché la rockstar nacque pittore, e pittore sarebbe tornato – stando a quello che immagina chi l’ha conosciuto bene e l’ha amato e continua a farlo. Prima di fare fumetti dipingeva quadri di denuncia ma se li compravano i farmacisti per mettrseli in camera da letto. Da qui il desiderio di fumettare imparando nella fucina di rottura dei linguaggi che fu il Dams. Mettendo in gioco il suo corpo «teatro di operazioni per l’artista – soleva dire – un modello sempre a portata di mano e a buon mercato. Quando disegno un corpo, io disegno o il mio antenato Arcadio Paz, o un corpo degradato, o migliorato, flamenchizzato, o insensualito, ma sempre il mio corpo».
Ossessionato dall’idea del doppio di sé – altro non sono Penthotal, Zanardi, Pompeo – mescolò Paperino all’underground americano e alla sapienza ereditata dal suo primo maestro, lo cantò come il miglior acquarellista, era suo padre. Narrazione e profezia, tavole e tele raffinate e migliaia di foglietti sparsi in tutta Italia. Di lui si parla nelle serate tra amici, c’è sempre chi ha conosciuto lui e chi giura di aver conosciuto Zanardi. In questo senso è un classico, perché non se ne può prescindere. E non è, né sarà mai un classico perché resta inafferrabile, clandestino, deformabile come la memoria. Un’occhio da storico ne vedrà la capacità di cantare la «b-side dell’Italia potenza craxiana», come disse Enrico Brizzi, fresco di Jack Frusciante che dedicò a Paz e a Pier Vittorio Tondelli che, a sua volta, nel Week end post moderno , ebbe a dire che Andrea fosse il James Joyce del fumetto italiano. Certo è grazie a Paz se oggi non è tutto un manga-manga, se il suo segno riaffiora tra i fumettisti resistenti (e promettenti) su riviste che appaiono e scompaiono. Dieci anni dopo, il suo Zanna campeggiava sul palco di S.Giovanni nel logo del concertone. Ne sarebbe stato contento l’autore? A Conegliano, provincia di Treviso, c’è una scuola elementare che porta il suo nome. Lo stesso a San Severo, Foggia, dove egli ha vissuto. Pazienza come Garibaldi, Pertini e Mazzini: nome di scuola materna a Vittorio Veneto, di anfiteatro a Spilamberto, provincia di Modena. Pazienza faccia da francobollo (Poste italiane ’97), faccia da busto a Fusignano (Ravenna), nome di centro del fumetto a Cremona, nome di una via in un quartiere sperduto della Capitale.
Nessuna meraviglia che Step, il protagonista di Tre metri sopra il cielo si introduca nottetempo nei locali di una casa editrice per rubare alcune tavole originali dell’autore. Nel numero 200 di Dylan Dog appare Virgil, figlio dell’ispettore Bloch e porta lo stesso naso di Zanardi. A pagina 68 della stessa storia, una comparsa ha proprio le fattezze di Pazienza. E un ritratto di Pazienza è il logo della SchwarzRot8000, squadra di football nella liga alternativa di Zurigo. Ti citeranno, ti citeremo ancora, Paz, come hai citato le nostre vite metropolitane e/o provinciali, come le hai inventate. E lo stesso personaggio della testatina di Popoff altro non è che un apocrifo omaggio al nostro.
Non fosse successo il noto collasso, il 23 maggio avrebbe compiuto 60 anni e, nelle sere etiliche qualcuno immagina cosa ne sarebbe stato di lui. C’è stato chi ha ipotizzato, ricamandoci su (con bel libro edito da Bevivino nel 2004, “Massimo Zanardi. Che non mi si chiami Fido, quindi” e scritto dal milanese Tomaso Pessina) che Zanna – oggi quarantaseienne – sarebbe diventato un tassista (che comunque arrotonda smazzando un po’ di roba) in una Bologna che non riconosce più, dopo una manciata di esami al Dams. Colasanti ha perso i suoi boccoli, si rade, lavora in banca, spende soldi e gioca per ore ai videogiochi. Petrilli, quello sfigato del gruppo, naso a pera, bassino, negli anni Novanta è stato un po’ in comunità. Oggi è sposato e fa il bidello nello stesso liceo. Ma i licei sono ancora pieni di giovani futuri precari che forse inventeranno nuovi linguaggi del desiderio riscoprendo, magari, gli stessi «torbidi legami col movimento del ’77» che ammise Pazienza.
Con la riconoscenza e l’affetto che si devono a Mariella e Michele