Secondo appuntamento con Laicità, oggi a Roma. Tra le altre figure si rievoca l’eroina risorgimentale madre di quattro figli. Una targa la ricorda nel luogo dove fu uccisa, nell’ex lanificio Ajani, alla Lungaretta
di Maurizio Zuccari
Alcuni la definiscono alta, bella, formosa. Come Melania Mazzucco in un breve ritratto a ricordo delle sue gesta, o Claudio Fracassi nel bel libro dedicato all’epopea della seconda Repubblica romana. In realtà una bellezza non era, come attesta l’unica piccola immagine fotografica che ne resta. A renderla tale fu la morte, che ne trasfigurò i tratti da matrona romana – madre di quattro figli e moglie d’un dirigente d’azienda – in fulgida eroina risorgimentale. Soavemente effigiata da Carlo Ademollo col marito Francesco e il figlioletto Antonio accanto, sventrati come lei dalle bajonette pontificie. Macchia di luce e di sangue nella cupa tela a olio dedicata dal pittore lombardo all’Eccidio della famiglia Tavani Arquati a tredici anni dal fatto. O l’augusta figura che spicca dalla lapide marmorea apposta al 97 di via della Lungaretta, sede del lanificio Ajani, nel decennale dell’eccidio. Di lei in realtà non si sapeva con certezza neppure dov’era sepolta – c’era chi la voleva nel mausoleo dei caduti a Mentana – certamente all’ossario del Gianicolo, assieme all’atra eroina del ’49, Colomba Antonietta Porzi. Dove sono raccolti i caduti romani della Repubblica del ‘49 e della campagna dell’agro romano nel ’67, dopo essere stata tumulata con i patrioti caduti nel lanificio Ajani sulla collinetta del Pincetto, nel cimitero comunale del Verano, in una tomba terragna chiusa da un coperchio di travertino e accanto una palma, simbolo del martirio. Ché una martire Giuditta Tavani Arquati lo è, e come tale è divenuta simbolo della lotta per la liberazione di Roma dal dominio temporale della Chiesa, e per questo le associazioni laiche e repubblicane ne commemorano ancora la figura.
Giuditta nasce il 30 aprile 1830 nell’ospedale Fatebenefratelli, sull’isola Tiberina, ed è battezzata lo stesso giorno nella chiesa ospedaliera di San Bartolomeo all’Isola. Il padre, Giustino Tavani, è un commerciante di stoffe, patriota della prima Repubblica romana del 1798-1799, già incarcerato e ramingo a Venezia per diversi anni, tornato a Roma. La madre è Adelaide Mambor, anch’essa di famiglia patriottica. La sua è un’infanzia all’insegna di princìpi laici e repubblicani, coerentemente con l’ambiente trasteverino in cui cresce, ma in contrasto con il clima reazionario e papalino della città. Non le fanno però mancare i sacramenti, da buona cattolica: a soli quattordici anni si sposa nella parrocchia di San Crisogono, a Trastevere, con Francesco Arquati, conosciuto nel magazzino di stoffe del padre. Entrambi sono alla difesa della Repubblica del ‘49 dalle armi francesi, e dopo la rotta seguono Garibaldi alla volta di Venezia, ai primi di luglio. Caduta la Repubblica di San Marco per mano degli austriaci, riparano nelle Romagne, poi a Subiaco, dove una lapide apposta nel 150° dell’unità ricorda la casa dove abitarono col primogenito, Antonio.
Nel 1865 fanno rientro a Roma, con i figli che ora sono quattro. Francesco assume la direzione del lanificio di Giulio Ajani, alla Lungaretta, ricco imprenditore che dispone di industrie, terreni e greggi, altra figura di spicco del Risorgimento romano. La loro è una famiglia di borghesi rivoluzionari e agiati – abitano un palazzo in piazza santa Rufina, poco distante – in una città di aristocratici e plebei: servitori, osti, barcaroli, guardie e preti. E proprio contro il governo dei preti Garibaldi, fuggito da Caprera, dov’è confinato, muove due anni dopo con 8mila volontari – 8 volte quanti gli erano occorsi per sbancare il Regno del Sud e conquistare il Mezzogiorno, pochi anni prima – alla volta di Roma, ostacolato dagli scherani di re Vittorio, come già nel ’62 in Aspromonte. Il giorno stabilito per la sollevazione è il 22 ottobre. Alle 7 di sera i muratori Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti fanno saltare in aria una caserma a Borgo, uccidendo una ventina di zuavi della banda musicale pontificia – i soli in caserma, a quell’ora – e un paio di passanti. È il segnale che deve dare il là all’insurrezione generale. Si sparacchia sul Campidoglio, a piazza Colonna, a porta San Paolo e ai Parioli. Fallisce però la liberazione dei detenuti politici nelle carceri di san Michele, a porta Portese, e l’occupazione di varie chiese da cui sarebbero dovute suonare le campane a stormo, segnale per l’ingresso dei garibaldini in città, che intanto muovono su Monte Rotondo. Per dar manforte ai romani, una spedizione di una settantina di patrioti, guidata dai fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, partiti da Terni il 20 ottobre, disceso in barcone il Tevere, sbarca alla confluenza con l’Aniene. Saputo della fallita insurrezione, si attestano sulla collina di Villa Glori per aspettare il grosso dei garibaldini che nel frattempo hanno conquistato Moterotondo. I papalini li sorprendono lì, nel pomeriggio del 23. Tra i mandorli della villa s’ingaggia una battaglia senza vinti né vincitori: i papalini non riescono ad avere la meglio sugli insorti che, da parte loro, sono costretti a ritirarsi a Monte Rotondo, lasciando sul colle Enrico tra i morti e i feriti che sono catturati la mattina del 24. Garibaldi, spintosi fino a Ponte Nomentano, scruta inutilmente col cannocchiale qualche fumata rivelatrice, ma a quell’ora è già tutto finito e s’avvia verso quello che sarà il disastro di Mentana, tra le sue rare sconfitte.
A Roma dopo la tentata sollevazione vige il coprifuoco, i superstiti degli scontri – una quarantina – sono tutti nel lanificio trasteverino, dove da settimane non si fila la lana ma si fabbricano bombe e proiettili e si coordinano le operazioni. Nelle strade non gira nessuno, tranne le pattuglie pontificie. E proprio un pattuglione di zuavi e gendarmi s’affaccia alla Lungaretta il 25, poco dopo la mezza. È l’ora di pranzo e Giuditta, assieme alle altre donne dei rivoltosi, sta dandosi da fare per sfamare quella torma stanca e sfiduciata, mentre Antonio, dodicenne, è di guardia sull’altana del lanificio. È lui a vederli e, pare, a gettargli una bomba che oltre al botto non fa gran danno. Nasce un parapiglia generale e uno scontro. I papalini sparano dal campanile della chiesa delle sante Rufina e Seconda e dai padiglioni dell’ospedale di san Gallicano, gli assediati rispondono al fuoco asserragliati nel lanificio. La fucileria va avanti per un paio d’ore finché, sopraggiunti i rinforzi e l’artiglieria che consente di sfondare il portone, i papalini danno l’assalto al complesso, all’arma bianca. Chi non riesce a fuggire dai tetti muore spanzato. Giuditta è tra questi, come il figlio e il marito. Ed è d’un qualche interesse leggere su Civiltà Cattolica, nel 1893, la rievocazione della strage che ancora riporta l’eco del dibattito se fosse o meno incinta del quinto figlio, e la denigrazione della sua figura, col tono dei vinti che già sentono di tornare vincitori. Una dozzina di altri patrioti muoiono sul posto, altri sul patibolo non fanno in tempo a vedere la breccia di porta Pia, di lì a tre anni. I grandi media la ricordano solo per una citazione di sfuggita nel passo del cardinale Colombo (Manfredi) dettato allo scrivano Serafino Nel nome del papa re di Luigi Magni.
La targa sul portone del lanificio merita una storia a sé. Eretta dalla Società operaia romana nel decennale della strage, a cui s’affianca nel ventennale un’Associazione democratica col nome dell’Arquati, sciolta nel ‘25 dal governo fascista che pochi anni dopo, in omaggio ai Patti Lateranensi, la fa ricoprire con la calce, come ogni lapide dei patrioti risorgimentali. Ma lo scalpellino Spartaco Buffacchi, ultimo presidente della disciolta associazione, va nottetempo finché non la ripulisce. Oscuro eroe di un’epopea dimenticata, come l’industriale Ajani, scampato alle forche e alle fucilate papaline per morire solo e in miseria in una Roma libera, sì, ma non come credeva e sperava chi aveva combattuto per quella libertà.