Avvistamento sui muri di Roma del simbolo che fu dei Ds dopo lo scioglimento del Pci. I Ds esisterebbero ancora e voterebbero per Fassina. In via di resurrezione anche il vecchio simbolo del Pci
di Giulio AF Buratti
“I democratici di sinistra votano Stefano Fassina a sindaco di Roma”. Non sembra una bufala, né un manifesto vintage. Il manifesto esiste davvero ed è stato avvistato a Roma. Le notizie sono almeno due: che la Quercia esiste ancora e che non vota per gli eredi legittimi dei Ds, ovvero per il Pd. Al contrario, chi rivendica quell’appartenenza dopo 3157 giorni dal suo scioglimento, avvenuto il 14 ottobre del 2007 quando gli eredi del Pci-Pds-Ds si fusero con ciò che restava della Dc-Ppi-Margherita. Del candidato Di Piero si sa che è molto attivo nelle lotte per la casa nel quadrante est della capitale, con l’associazione Area167, specie contro la truffa dei piani di zona ossia la vendita a prezzi di mercato di case che erano state edificate per essere date a prezzo calmierato grazie alle possenti agevolazioni per i palazzinari. «Per colpa di notai e dirigenti capitolini, migliaia di romani, nel corso degli gli ultimi 10- 15 anni, si sono caricati addosso mutui ventennali per delle case che (legalmente) valgono la metà di quello dicono le agenzie immobiliari», ha detto Di Piero rintracciato da Popoff.
Ma la nostalgia per vecchi simboli non sembra limitarsi alla Quercia ma anche alla “Falce, martello e stella su bandiere sovrapposte, rossa e tricolore”. E’ il vecchio simbolo del Partito comunista italiano, congelato alla Bolognina quando Occhetto guidò l’harakiri del più grande partito comunista in Occidente, l’anomalia italiana. L’archiviazione del simbolo, ideato dal celeberrimo pittore Renato Guttuso, fu la molla per migliaia di militanti per disobbedire all’apparato del partito dopo aver ingoiato di tutto senza praticamente fare una piega: dal compromesso storico all’ombrello della Nato, dalla piattaforma dell’Eur ai governi di unità nazionale, dalla Legge Reale fino ai contratti di formazione lavoro con cui fu demolito il principio cardine della democrazia: a parità di lavoro, parità di salario.
A pensarci bene, l’anomalia italiana non è la presenza di un partito comunista così grande ma che l’apparato di un così grande partito fosse l’artefice di quasi tutte le controriforme che si sono succedute negli ultimi decenni in Italia in ossequio alla più ortodossa linea iperliberista.
Ma quel simbolo ( o uno che gli somigliava molto) sarebbe stato merce di scambio nella controversa operazione che portò alla nascita del Pdci, la scissione di Rifondazione che doveva sostenere i governi di centrosinistra anche se appoggiavano le guerre della Nato o se introducevano veleno liberista nell’ordinamento sociale. Spicca il ruolo di uno dei loro leader, Diliberto, che inventò le famigerate squadre dei Gom mentre occupava la stessa poltrona di guardasigilli da cui il suo maestro, Palmiro Togliatti, firmò la grazia per tutte le camicie nere in nome della pacificazione nazionale.
Bene, dopo alcuni accorgimenti grafici e nominali, quel che resta del Pdci sta per rilanciare il Pci. Prima ha cambiato il nome in Pcd’I, poi la d è sparita e il simbolo è stato ritoccato per sovrapporsi al vecchio simbolo di Botteghe Oscure. Assieme a settori di Rifondazione, che sta per subire l’ennesima scissione, verrà lanciato il nuovo Pci con una tre giorni a Bologna dal 24 giugno prossimo. Il menu prevede dosi massicce di nostalgia per Togliatti, Berlinguer e l’Urss, più il consueto tran-tran nei territori che in questi anni li ha fatti somigliare sempre più ai loro alleati del Pd.
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