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Morì legato in ospedale. Dieci anni senza verità per il signor Giuseppe

Dieci lunghi anni senza verità e giustizia per Giuseppe Casu, privato della sua libertà da un Tso e della sua vita dalla contenzione inumana. Le battaglie del comitato e le sentenze sconcertanti. Parla la figlia

Signor Giuseppe
22 giugno 2006 – 22 giugno 2016. 10 lunghi anni sono già trascorsi. Fortuiti e decisivi sono stati gli incontri con Francesca Ziccheddu (fondatrice del Comitato Verità e Giustizia per Giuseppe Casu e Presidentessa dell’Asgop), Gisella Trincas (Presidentessa dell’ A.S.A.R.P ed U.N.A.S.A.M.), e gli avvocati Mario Canessa e Dario Sarigu. Prezioso il sostegno di quanti hanno contribuito in modo concreto ma anche emotivo, facendo di questa ricerca di verità e giustizia sulla morte di Giuseppe Casu una lotta comune che non è rimasta dentro i soli confini sardi.
E pensare che mio padre voleva solo stare in piazza a fare l’ambulante e invece gli è stato “confezionato” un T.S.O. per tempo, con tanto di giornalista e fotografo, per motivi di ordine pubblico…
È proprio lì, il 15 giugno 2006, nella piazza 4 novembre di Quartu Sant’Elena, che ha iniziato a morire, ad essere privato della dignità di uomo, venendo caricato a forza su un’ambulanza di fronte a tanta gente, senza il minimo rispetto dei suoi diritti. E ha continuato a morire lentamente, privo di ogni libertà fisica, rimanendo costantemente legato mani e piedi a quel letto dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari per ben 7 lunghi giorni, imbottito di farmaci. E così, sempre completamente immobilizzato e sedato, ha finito di vivere e di soffrire.
A una morte simile, avvenuta in un ospedale pubblico, è seguita necessariamente un’autopsia, intesa a determinare quale ne fosse stata la causa. Dalle indagini della procura si è poi scoperto che le relative parti anatomiche, consegnate al magistrato, non potevano essere quelle di mio padre, e che le sue erano “magicamente” sparite. E infatti i tre processi penali che ne sono conseguiti si sono concentrati su questo fatto: non essendoci i reparti anatomici non è stato possibile determinare le cause certe della morte e nemmeno una correlazione tra la causa e le azioni od omissioni dei medici che lo avevano in cura. Di fatto, nonostante un uomo sano fosse entrato in un reparto sanitario pubblico, che lo aveva in custodia, e ne aveva la responsabilità della salute, tutti i procedimenti si sono impantanati, concentrati esclusivamente sulla impossibilità di analizzare i reperti anatomici.
Ed è così che finisce l’iter giudiziario, con una lentezza burocratica che ha permesso la prescrizione dei reati, due sentenze di secondo grado diametralmente opposte. Una che riconosce una verità: “Se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo“; e ancora più esplicitamente: “Gli imputati hanno manifestato e rilevato profili di colpa per negligenza ed imperizia, potendo conclusivamente affermarsi che il trattamento sanitario riservato al Casu è stato caratterizzato da una eccessiva e prolungata contenzione, da una altrettanto invasiva sedazione e da un prolungato ‘accanimento farmacologico’, il tutto attuato senza curarsi minimamente di monitorare le sue condizioni, così integrato un caso macroscopico di ‘mala sanità’“. L’altra, che definirei scandalosa, si permette invece di giudicare tutti quanti, l’operato del magistrato, la vita di mio padre e quasi santifica i medici imputati… Mentre la Cassazione assolve i medici perché il fatto non sussiste. È rimasto confermato solo l’unico dato certo: i reperti anatomici sono spariti perché qualcuno li ha fatti sparire.
Purtroppo lo devo ammettere, anche se a denti stretti e con tanta rabbia dentro, la verità non si è potuta appurare e la giustizia di conseguenza non si è potuta fare… Eppure… Eppure rifarei oggi stesso tutto daccapo, consapevole che non avrei potuto agire diversamente. Nonostante solo io sappia quanto sia stato duro riuscire a mantenere l’autocontrollo e sopportare le azioni feroci di coloro i quali hanno fatto sì che un nostro diritto legittimo si trasformasse in una lunga agonia di dolore e sofferenza, che non ha di certo facilitato il processo di accettazione di quanto, nostro malgrado, abbiamo dovuto subire mio padre, mia madre, io, la mia famiglia.
A muovermi infatti non è stato solo l’amore di figlia ma anche il senso di giustizia, la paura che altri potessero subire la sua stessa sorte se io non li avessi avvertiti sollevando pubblicamente il caso. Ed è per questo stesso motivo che, nonostante l’iter giudiziario sia giunto al termine, non smetterò mai di raccontare la storia di mio padre, di essere la sua voce, affinché altre famiglie e persone come lui, come noi, non rimangano vittime anche della propria ignoranza e di un eccesso fiducia nell’operato dei medici.

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