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Quanta schiavitù c’è in quello che mangi? Parla un ex bracciante

 Yvan Sagnet, camerunense, è stato bracciante a Nardò. Poi ha scritto “Ghetto Italia” per parlare di come accorciare la filiera e battere un sistema che si fonda sull’abbattimento dei costi

di Enrico Baldin

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«Lo sfruttamento dei braccianti è un meccanismo strutturale e diffuso». A parlare Yvan Sagnet, uno che è stato bracciante e che lo sfruttamento lo ha vissuto sulla sua pelle: «Il caporalato è necessario all’economia della grande distribuzione che nessuno ha interesse di cambiare». Sagnet è camerunense, ha studiato in Italia, finché il destino lo portò nei campi pugliesi di Nardò dove braccianti perlopiù stranieri sotto il sole raccoglievano pomodori in condizioni disumane. Diciotto ore di lavoro giornaliere, paghe infami, condizioni igieniche precarie, ed uno status che sarebbe difficile non chiamare schiavitù. E’ qui che la vita di Yvan cambiò e in modo repentino, perché dopo settimane di vessazioni, all’ennesimo ricatto Yvan iniziò uno sciopero ad oltranza che coinvolse i suoi compagni di lavoro, fino ad avere risonanza nazionale, l’interessamento di diversi soggetti ed una inchiesta della magistratura. Sagnet, che fu anche minacciato di morte dai suoi caporali, da quel giorno giurò a sé stesso che non avrebbe mai smesso di battersi contro lo sfruttamento. Popoff lo ha sentito durante una delle tante tappe trascorse tra il racconto della sua esperienza, la presentazioni del suo libro “Ghetto Italia” e il dialogo con realtà di economia alternativa.

Anche quest’anno è giunta la stagione della raccolta dei pomodori in sud Italia. Cos’è cambiato da qualche estate fa quando a Nardò vi ribellaste?

Sostanzialmente niente. Questo sistema di sfruttamento esiste ancora, i caporali che maltrattano esistono ancora, i braccianti italiani o stranieri da sfruttare nel lavoro nei campi ci sono ancora.

C’è razzismo nei campi del sud Italia?

Certo che sì. Gli stranieri sono senz’altro più ricattabili e più deboli e il caporalato approfitta di questa condizione per imporre le proprie condizioni di sfruttamento che tolgono anche la dignità. Più un lavoratore è ricattabile e più il caporale lo ricatta. E questo, indirettamente è vissuto anche sulla pelle degli italiani che subiscono a loro volta la concorrenza a ribasso tra lavoratori stranieri. Basti pensare alla storia di Paola Clemente, morta lavorando nell’acinellatura dell’uva per poco più di due euro l’ora. Il razzismo c’è di certo, ma io credo non sia questo il punto.

Cosa intende dire?

Voglio dire che il razzismo è semplicemente utile agli sfruttatori perché permette loro di massimizzare gli utili di un sistema in cui i caporali sono solo un anello della catena. In un certo senso i caporali sono anche vittime del sistema: impongono sui lavoratori le condizioni che il mercato impone loro. Il caporale è accessorio rispetto ad un modello produttivo che chiede continuamente di abbassare i costi. Dietro alle offerte al ribasso dei supermercati ci sta tutto questo: paghe da fame, condizioni di igiene degne di animali, quindici ore di lavoro al giorno, continue umiliazioni. E poi naturalmente al ribasso è anche la qualità del prodotto.

Una ruota infernale. Come si può uscirne?

Lo Stato, quello dell’articolo 1 della Costituzione, dovrebbe impegnarsi in prima persona su questa situazione arcinota che a Nardò, a Rosarno nel 2010 e in Emilia Romagna negli scorsi mesi è stata denunciata a gran voce da braccianti, contadini, facchini. Ci sarebbe bisogno di applicare le leggi esistenti, innanzitutto. La schiavitù non esiste nell’ordinamento italiano e non dovrebbe esistere neppure nella realtà. E invece è favorita da una cultura dell’impunità e dalla mancanza di controlli.

Basta applicare le leggi esistenti quindi?

Sarebbe già una gran cosa. Ma servirebbe altro perché questo non è un sistema sano che al massimo ha delle distorsioni da sanare. E’ un sistema marcio dalla radice. In tutti i passaggi della filiera produttiva si comprimono i costi, dal contadino al trasportatore al distributore al dettaglio. L’imposizione di prezzi sempre più bassi da parte della grande distribuzione imprime sulle spalle dei lavoratori un peso esagerato. Pensi che si stima che il 60% dei prodotti che troviamo nei banchi del supermercato sono in odore di sfruttamento.

Che cosa propone quindi?

Propongo la costituzione di un meccanismo di certificazione etica dei prodotti che si trovano sui supermercati, a cui ci si deve attenere. Una certificazione etica che dica non solo che un prodotto è biologico, rispettoso dell’ambiente e della salute, ma anche rispettoso dei diritti di tutti i lavoratori. In secondo luogo è necessario garantire una totale tracciabilità del prodotto, in modo che sia trasparente dalla terra alla corsia del supermercato.

Questioni che non paiono essere neppure lontanamente all’ordine del giorno di questo governo.

Infatti il jobs act, l’istituto dei voucher, vanno nella direzione opposta, rendono il lavoratore più solo e più ricattabile, estendendo una copertura di legalità alla ricattabilità e allo sfruttamento. E non solo nell’agricoltura. Il governo va dalla parte opposta rispetto a quanto sarebbe necessario. Per questo abbiamo pensato di fare da noi: non possiamo aspettare.

Avete pensato di fare da voi. Che cosa ha in mente?

Ci sono molte realtà in Italia che sono etiche e solidali, che si sono sviluppate senza nessuna intersezione con quella economia fatta di illegalità e sfruttamento. Io credo che tutte queste realtà, dai GAS ai produttori “genuini”, ad Altromercato, vadano messe in rete, fatte crescere insieme, in modo che non siano delle nicchie separate tra loro ma una realtà strutturata e consolidata veramente etica. Molti operatori della grande distribuzione portano avanti filiere “inquinate”, magari coperte da marchi che dovrebbero dare una parvenza di salubrità e rispetto dei diritti. Con numerosi soggetti stiamo cercando di mettere insieme invece una filiera pulita, etica, rispettosa veramente. Oltre la parvenza di certi marchi.

Ma non teme quella critica comune secondo cui certi prodotti costerebbero troppo?

No. Innanzitutto perché va detto che oggi su quello che è il biologico tradizionale, in mano a pochi, c’è una enorme speculazione ed un enorme ricarico che potrebbero tranquillamente essere ridimensionati. In secondo luogo pensiamo che incentivando prodotti locali e a km zero si abbatterebbe il costo del trasporto e si accorcerebbe la filiera. Inoltre c’è un gran lavoro da fare per quanto concerne il costo energetico che potrebbe essere abbattuto dando spazio alle energie rinnovabili “domestiche”, prodotte nelle singole realtà: in Germania si usano i pannelli solari per produrre l’energia che serve alle pompe di irrigazioni, noi invece siamo fermi ancora a sistemi obsoleti e costosi. Con questi accorgimenti non da poco si può essere concorrenziali senza sfruttare ne’ l’uomo ne’ l’ambiente.

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