Un libro che non aggiunge nulla alla conoscenza di Stalin ma ci dice qualcosa sull’ideologia dominante nella Russia attuale
La Mondadori ha pubblicato tempestivamente una ponderosa opera di Oleg V. Chlevnjuk, che è considerato uno dei più autorevoli storici russi, e che era già autore di una Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande Terrore (tradotta in Italia da Einaudi nel 2006). Il lavoro precedente era stato apprezzato per la sistematizzazione e la periodizzazione del sistema concentrazionario sovietico, alla luce di archivi riservatissimi a cui aveva avuto accesso in quanto ricercatore presso l’Archivio di Stato della Federazione russa, ma era risultato abbastanza deludente per la insufficiente ricostruzione del fenomeno staliniano nel suo complesso. Ad esempio si soffermava soprattutto sull’utilizzazione dei campi di lavoro ai fini economici (non tacendo peraltro la bassissima produttività del lavoro forzato), descrivendo le categorie sociali coinvolte, ma sottovalutando i processi più esplicitamente politici, o la distruzione deliberata di intere categorie, tra cui gli ufficiali superiori. Altro motivo di interesse era la pubblicazione di inediti come le confessioni di dirigenti di campi caduti in disgrazia, o di verbali dei processi a personale dell’NKVD accusati di gravi violazioni della “legalità socialista” in ogni periodico cambio della guardia ai vertici degli “organi” di sicurezza. Mancava un’interpretazione complessiva del fenomeno, ma l’accesso a preziose fonti archivistiche compensava questo limite-
Per questo era lecito attendersi qualcosa in più da questo Stalin. Biografia di un dittatore (Mondadori, Milano, 2016). In realtà il libro, pubblicato inizialmente negli Stati Uniti, dove Chlevnjuk è diventato ricercatore presso il “Centro internazionale per la storia e la sociologia della seconda guerra mondiale e le sue conseguenze” (sic) della Higher School of Economics, pur rimanendo Direttore di ricerca presso l’Archivio di Stato di Mosca, aggiunge pochissimo a quanto si sapeva da anni, anche perché parte degli archivi (dopo una prima fase di apertura confusa e di vendite casuali di documenti negli anni immediatamente successivi al crollo dell’URSS) continuano ad essere chiusi anche a chi ci lavora.
E la struttura del libro, basato su “due narrazioni alternate, come una sorta di matrioska testuale, non aiuta. “Una catena concettuale esamina la personalità di Stalin e il suo sistema di governo sullo sfondo dei suoi ultimi giorni di vita. L’altra, di taglio più convenzionalmente cronologico, segue le fasi principali della sua biografia”. Chlevnjuk invita i lettori a fidarsi della sua disposizione seguendo l’ordine delle pagine, ma dice che è ugualmente praticabile affrontare un livello alla volta. Ho seguito il suo suggerimento, pur infastidito dal taglio inevitabilmente romanzato, che vorrebbe ricostruire la psicologia e i moventi del dittatore seguendone in sette capitoli la lunga e solitaria agonia, con l’aggiunta di un ottavo dedicato al funerale che ebbe come anticipazione la tragica morte di 109 persone schiacciate nella calca di chi cercava di accedere alla Casa dei Sindacati per rendere omaggio alla salma. È interessante che Chlevnjuk ha rintracciato non documenti diretti su quella tragedia, che fu nascosta a lungo dalla stampa, anche se oltre ai morti provocò lesioni permanenti a un numero imprecisato di persone, ma lettere di singoli cittadini che denunciavano l’inefficienza della polizia.
Per cinque ore la gente si è accalcata per tutta Mosca, e nessuno della polizia che sapesse dove fosse la coda! La polizia andava a sbattere contro cortei di migliaia di persone investendo la gente tra urla e gemiti. In centinaia di migliaia hanno fatto il giro di tutte le strade che conducevano alla Sala delle Colonne, trovandole bloccate!…
La conclusione era sintomatica della mentalità dell’epoca staliniana: “Solo un sabotatore poteva annunciare che l’ingresso sarebbe stato aperto alle 4 e comunicare il percorso alle 9”. Venti anni di caccia al sabotatore avevano plasmato il buon cittadino sovietico.
Chlevnjuk comunque ne ricava la conclusione che “forse la tragedia di Mosca indusse gli eredi di Stalin a considerare le deficienze della polizia di Stato, ma per il momento non potevano far altro che affidarsi alle istituzioni e ai metodi loro trasmessi in eredità”. Ma è deludente la ricostruzione della risposta della società russa alla morte di Stalin (si limita ad accennare che vi fu un picco di arresti e di condanne per “agitazione antisovietica” in quel marzo 1953, che in realtà vide vere e proprie rivolte nei campi) e soprattutto nella descrizione dello scontro tra gli eredi, banalizzato senza individuare lo stato di necessità in cui si trovarono. Non si sofferma sul sintomo rappresentato dal fatto che la prima vittima fu Berija, proprio il grande repressore dell’ultimo periodo staliniano, che aveva però i mezzi per capire prima di altri la profondità della crisi, e che non a caso fu colpito mentre proponeva – tardivamente – soluzioni riformiste per la Germania e l’Ungheria. E a smentire l’affermazione di Chlevnjuk, che ritiene che le riforme degli eredi di Stalin “modificarono radicalmente il regime sovietico, che cessò di essere «stalinista»”, c’è il processo assolutamente staliniano organizzato dai suoi colleghi: a porte chiuse, e pare addirittura post mortem, ma che attribuiva a Berija ogni tipo di colpa fin dall’adesione a “organizzazioni controrivoluzionarie” georgiane quando era ancora a un ragazzo, ma non quelle vere di aver fatto perire milioni di persone innocenti. Non potevano farlo, perché erano stati tutti complici.
Se la banalizzazione dello scontro per la successione al dittatore ha delle attenuanti, data l’assoluta mediocrità intellettuale e morale dei collaboratori di Stalin, e l’assoluta segretezza in cui continueranno a prepararsi dietro le quinte le periodiche destituzioni (sia pure incruente, dopo l’eliminazione di Berjia), da Chruscëv a Gorbaciov, sgradevole è l’accettazione della spiegazione in auge tra gli storici borghesi che considera gli scontri politici del 1923-1927 una volgare lotta per la successione a Lenin. In realtà Chlevnjuk a tratti ammette che il potere di Lenin era legato soprattutto al suo immenso prestigio e non a incarichi formali (compreso quello di segretario generale, nato nel 1922 come funzione “tecnica” e che fu costruito da Stalin intorno alla propria figura). Dedica alcune pagine alla questione del Testamento di Lenin, e alle manovre per respingerne le indicazioni, ma nel complesso non riesce e non vuole cogliere la enorme frattura che esiste tra la Russia sovietica dei primi anni e quella del periodo del dominio assoluto staliniano (che pure giustamente sposta un po’ in avanti nel tempo, facendolo partire dalla collettivizzazione e industrializzazione forzata del 1929 e individuandone il consolidamento nel 1934 con l’assassinio di Kirov). Peraltro, con stupore di Robert Conquest, che lo aveva manifestato chiaramente nella prefazione al precedente libro sul Gulag, Chlevnjuk assolve Stalin da responsabilità dirette in quell’attentato, dimenticando di aver scritto lui stesso precedentemente che “gli assassinii politici sono programmati nella massima segretezza, e non vengono documentati formalmente”.
Chlevnjuk fa parte di quella generazione di storici sovietici che ha avuto come capofila il generale Volkogonov, passato da storico ufficiale al servizio di Breznev a un ruolo importante e ugualmente ufficiale nella transizione al capitalismo, iniziata sotto Gorbaciov e Eltsin e culminata nella presidenza Putin. Si capisce che ha in gran fastidio Lenin, e si rammarica che nella primavera del 1917 non abbia prevalso il “programma moderato” di Kamenev e Stalin, favorevoli a un appoggio al governo provvisorio, e disponibili a una fusione con i menscevichi. Chlevnjuk ricostruisce la battaglia politica di Lenin con le “Lettere da lontano” e leTesi di aprile, rammaricandosi del fatto che furono accolte con entusiasmo dalle masse attive nei soviet, e interpretando l’atteggiamento di Lenin come ossessionato dalla volontà di provocare la guerra civile. “Lenin stava deliberatamente provocando uno scontro destinato ad allontanare i bolscevichi dalle altre forze politiche del paese.” La responsabilità maggiore di Stalin sarebbe quindi di essersi piegato al volere di Lenin, a differenza di Zinov’ev e Kamenev.[Su quella fase rinvio soprattutto al mio Il vicolo cieco].
Ogni tanto in Chlevnjuk riaffiora il mantra che attribuisce i mali dell’URSS in solido a Lenin e Stalin, ma si contraddice poi descrivendo il recupero immediato dei due dissidenti da parte di Lenin, la cui “ricetta preferita prevedeva una miscela di intransigenza e di conciliazione”. Non nasconde neppure l’asprezza della denuncia leniniana della pericolosa “rozzezza staliniana”, ma sorvola sull’enorme ricchezza del dibattito successivo alla morte di Lenin. Registra senza scandalizzarsi troppo le manovre di apparato ma ignora la riflessione non solo di Trotskij, ma di tanti dirigenti dell’Opposizione di sinistra. Ammette che il sistema concentrazionario comincia a svilupparsi solo nel 1929,ben dopo la morte di Lenin e l’esilio di Trotskij, in primo luogo per stroncare l’opposizione sociale della maggior parte dei contadini alla collettivizzazione forzata, ma poi qua e là lascia cadere la classica insinuazione che vari precedenti c’erano già quando Lenin era vivo e Trotskij comandava l’armata rossa. Dimentica che una fucilazione in tempo di guerra può essere inevitabile, e che i prigionieri di tutti gli eserciti vengono rinchiusi in campi di concentramento (l’alternativa sarebbe ucciderli dopo la cattura, ed è successo in molte guerre anche recenti), ma che quelle fucilazioni e quei primi campi non avevano niente a che vedere con la deportazione staliniana di interi popoli, di intere categorie, per usarne la forza lavoro in un sistema neo schiavistico, e per seminare il terrore nella maggior parte della popolazione.
Ma di questo ho parlato spesso in vari testi, che mi limito a riproporre. In particolare: Testimonianze sullo stalinismo (che segnalo ai nuovi visitatori del sito, anche se è stato letto da 6785 persone), o in Nemici del popolo, o in altre decine di articoli e recensioni rintracciabili nella sezione Il dibattito sul “socialismo reale”.