Dal National Front all’UKIP, l’estrema destra britannica ha una lunga storia nel collegare malcontento sociale ed economico all’immigrazione. Compito della sinistra è quello di scardinare questa connessione
Pochi individui si sono impegnati con tanto entusiasmo nella pratica della politica-spettacolo quanto Nigel Farage, l’ex leader dell’UK Indipendence Party (UKIP) recentemente dimessosi. Nella sua campagna per la Brexit, Farage è stato la mente direttiva di una vasta gamma di tattiche. Per due volte ha pubblicizzato le sue posizioni su grossi veicoli che servivano come sfondo per pose fotografiche. I bus della campagna “Vote Leave” proclamavano “In una settimana mandiamo all’Unione Europea 350 milioni di sterline, usiamoli per finanziare il servizio sanitario nazionale” (la cifra è stata contestata e Farage ha ritrattato sulla sua promessa poco dopo il risultato). E a giugno Farage è stato fotografato mentre indicava un camion con un enorme cartellone dell’UKIP che raffigurava una fiumana di rifugiati laceri e senza speranza, con lo slogan “Punto di rottura”. L’allusione era chiara: palesemente, una moltitudine di “altri immigrati” si stava dirigendo verso i confini e solo Farage poteva proteggere i vulnerabili britannici. Il parlamentare conservatore e alleato nella campagna per il “Leave” Boris Johnson era davanti all’autobus con lo slogan sulla sanità, ma ha negato ogni associazione con quello che trasportava il cartellone sul “punto di rottura”. Ma i due manifesti pubblicitari mostrano che un piano di investimenti nello Stato sociale risultava attraente, almeno in parte, per la stessa fascia di popolazione che rispondeva alle campagne xenofobe dell’UKIP.
Queste due idee (quella secondo cui i tempi sono duri e il denaro non è sufficiente e quella secondo cui lasciare l’Unione Europea e limitare l’immigrazione è la soluzione a queste problematiche) hanno giocato un ruolo chiave nei dibattiti sul referendum per la Brexit, sia durante la campagna sia dopo. Il tono xenofobo di tanta parte della campagna per il “Leave” ha suscitato collera e a partire dal referendum c’è stato un boom di aggressioni xenofobe e razziste. Mentre la convinzione secondo cui questo evolversi degli eventi è tra le peggiori conseguenze del referendum e del suo risultato acquista consensi, parte delle reazioni a questi avvenimenti si basa sul presupposto di fondo che l’intolleranza estrema verso gli immigrati sia una nuova tendenza. In realtà, la campagna sul referendum è consistita nel rientro in scena di vecchie tendenze politiche e in particolare di un flirt tra il Partito Conservatore e alcuni esponenti dell’estrema destra che è iniziato qualche decennio fa.
Negli anni ’60 e ’70 la diffusa preoccupazione nei confronti dell’immigrazione non aveva nulla a che fare con l’Europa. Anziché contro i lavoratori polacchi e contro i rifugiati, i politici e gli attivisti di destra puntavano il dito contro gli immigrati provenienti dai Paesi del Commonwealth; nello specifico, contro quelli provenienti dal cosiddetto Nuovo Commonwealth, quei Paesi diversi dalle colonie di Canada, Australia e Nuova Zelanda che erano popolate da bianchi (il Sud Africa era raramente incluso nel gruppo). Una storica, ufficiosa politica di apertura dei confini fu avviata nel 1948, quando il British Nationality Act diede a tutti coloro che erano nati nei Paesi che successivamente avrebbero costituito il Commonwealth di stabilirsi e lavorare nel Regno Unito. Nel contesto del crescente benessere del dopoguerra, molti si trasferirono dai Caraibi e dall’Asia meridionale per cercare lavoro ed offrire opportunità maggiori alle proprie famiglie. Già dal 1955, tuttavia, avvisaglie di opposizione alla politica di apertura dei confini si manifestarono nel primo sforzo di limitare l’immigrazione non bianca proveniente dal Commonwealth, portato avanti dal parlamentare conservatore Cyril Osborne. La prima proposta legislativa per controllare l’immigrazione proveniente dal Nuovo Commonwealth che ebbe successo fu quella approvata nel 1962 durante il governo del primo ministro conservatore Harold Macmillan.
Un periodo di legislazione sempre più restrittiva sull’immigrazione ebbe inizio in concomitanza con una sempre più vasta e popolare campagna politica a sostegno delle limitazioni. Sicuramente, Boris Johnson e Michael Gove non sono i primi conservatori ad entrare in combutta con l’estrema destra. Organizzazioni come la Birmingham Immigration Control Association, la Yorkshire Campaign to Stop Immigration e persino il National Front comprendevano membri che erano stati consiglieri conservatori negli anni ’60 e ’70. Importanti membri del Partito Conservatore venivano onorati da queste organizzazioni: il famigerato Enoch Powell, il cui discorso al vetriolo sull’immigrazione nel 1968 lo portò a essere messo fuori dal Governo Ombra di Edward Heath (in parte per il soprannome dato agli immigrati di “bimbi neri dai sorrisi a trentadue denti” e in parte per le sue affermazioni secondo cui una maggiore immigrazione avrebbe gettato i britannici meritevoli fuori dalle loro case) fu accolto come un eroe dall’estrema destra. Il parlamentare di Smethwick Peter Griffiths, la cui campagna del 1964 per il Parlamento si distinse per l’uso dello slogan “se vuoi un negro come vicino di casa, vota il Labour” era molto vicino alla Birmingham Immigration Control Association. La direzione del Partito Conservatore condannò Powell e Griffiths per i loro fuochi d’artificio retorici, ma dopo il 1962 lavorò instancabilmente per limitare l’immigrazione. Infatti, nonostante abbia licenziato Powell, Edward Heath fu l’artefice dell’Immigration Act del 1971, che sbatté la porta in faccia all’immigrazione primaria (uomini che cercavano lavoro e residenza, anziché i loro familiari a carico) dal Nuovo Commonwealth.
Alla base di questa nuova politica, che prese di mira nello specifico gli immigrati provenienti dal Nuovo Commonwealth dal 1962 fino all’introduzione della nuova legislazione sulla cittadinanza con il British Nationality Act del 1981, vi era un presupposto condiviso sia dai Conservatori sia dai membri dell’estrema destra: l’immigrazione era costosa, era un fardello per lo stato sociale, danneggiava l’identità nazionale britannica e in generale era indesiderabile. I Conservatori possono aver condannato il più esplicito linguaggio impiegato dai partiti di estrema destra, ma in nessun modo erano disaccordo sul fatto che l’immigrazione fosse una forza malefica che era stata inconsapevolmente scatenata nella loro nazione. Diversamente dal Partito Laburista e dal Partito Liberale, i conservatori non hanno mai fatto sforzi sostanziali per confutare le voci secondo cui la pressione sugli alloggi, la carenza di letti negli ospedali, le scuole elementari sovraffollate erano causate dagli immigrati e dagli immigrati soltanto, anzi, le hanno spesso incoraggiate.
Il sostegno verso queste idee e verso le campagne che da esse nascevano proveniva in parte dalla classe lavoratrice, ma anche dalla piccola borghesia: persone che sentivano di essere state indotte ad aspettarsi qualcosa dai loro leader – un certo stile di vita in un’epoca di opulenza post-guerra – e a cui invece era stato offerto il tradimento del contratto sociale. Dopo la Seconda Guerra mondiale, molti britannici interpretarono i sacrifici fatti in tempo di guerra come il prezzo dell’appartenenza alla nazione britannica, e in particolare come il prezzo per accedere alle risorse del neonato stato sociale. Le preoccupazioni riguardo alla capacità dello Stato di riuscire effettivamente a finanziare e fornire quei servizi restarono un tema di discussione durante la seconda metà del XX secolo. Membri della classe media spesso portavano avanti queste campagne, in parte perché avevano più tempo, più risorse e più potere. La mancanza di fiducia negli esperti era diffusa: Michael Gove non ha inventato niente a questo riguardo. Dibattiti incessanti rivelavano il numero magico di immigranti che potevano essere sopportati dall’economia britannica senza provocare il totale collasso dei servizi di welfare e senza distruggere il tessuto sociale. Enoch Powell emerse come un leader in questo dibattito, impegnandosi in lunghe conversazioni con i dipendenti dell’Ufficio Centrale di Statistica e altri organi statali riguardo al modo in cui i dati relativi all’immigrazione erano compilati e interpretati. I numeri diffusi sia dalla destra sia dall’estrema destra diminuirono sempre di più.
L’assunto secondo il quale l’immigrazione era collegata ai problemi sociali ed economici e contenendola essi sarebbero stati risolti fu espressa nella maniera più veemente dall’estrema destra, ma i conservatori non l’hanno rinnegato, e di fatto è stato alla base di gran parte della politica sull’immigrazione dagli anni ’50 fino a tutta l’era Thatcher. Volendo fare un parallelo col presente, David Cameron può non aver appoggiato la visione secondo cui lasciare l’Unione Europea avrebbe contribuito ad arginare il flusso dell’immigrazione ma ha fatto la promessa di ridurre l’immigrazione netta a decine di migliaia all’anno (un numero mai raggiunto da quando è cominciata, durante il secondo dopoguerra, la registrazione dei dati). Durante il mandato di Cameron, il ministro dell’Interno Theresa May ha implementato politiche sempre più restrittive volte a prevenire l’arrivo di persone che guadagnavano un salario inferiore a quello di un membro della classe media e a espellere coloro che avevano vissuto nel Paese per più di cinque anni se non erano riuscite a raggiungere quell’obiettivo fiscale. La promessa fatta da Cameron durante la campagna referendaria in base alla quale sarebbe stato in grado di affrontare l’immigrazione restando nell’UE non rappresentava per nulla un rifiuto del presupposto che vede nell’immigrazione la radice dei problemi della Gran Bretagna, ma soltanto una dichiarazione sul fatto che avrebbe trovato un altro modo per chiudere la porta.
Il punto di vista dei Conservatori sull’immigrazione è rimasto invariato per praticamente tutto il periodo del secondo dopoguerra. Durante questi decenni i Conservatori sono rimasti fedeli a una particolare immagine dell’immigrato. Quando i Conservatori nei tardi anni ’70 iniziarono ad agire per espandere la loro base elettorale tra le comunità non bianche, lo fecero appellandosi a quegli immigrati che si erano definitivamente integrati nella società e nella cultura britanniche. La leggendaria campagna di manifesti del 1983 che ritraeva un uomo nero che indossava un completo accompagnata dallo slogan “Il Labour dice che lui è un nero. I conservatori dicono che lui è un britannico” esemplifica il loro atteggiamento verso questioni razziali tra la fine del ‘900 e gli inizi del 2000. Nella visione del Partito Conservatore, gli immigrati erano desiderabili finché erano praticamente indistinguibili dai sostenitori del partito. Sostanzialmente, erano desiderabili finché non mettevano in discussione i valori fondamentali che sono alla base delle politiche dei Conservatori.
Mentre la demografia dell’immigrazione è cambiata, la natura esclusiva del pensiero dei Conservatori verso gli immigrati no. Oggi, è meno probabile che gli immigrati siano uomini e donne di colore, in quanto sono piuttosto cittadini europei provenienti dall’Europa orientale. È dunque più probabile che l’intolleranza che affrontano sia xenofobia più che razzismo dichiarato. Il linguaggio utilizzato per esprimere quest’intolleranza, comunque, è spesso il medesimo ed è impiegato in modo determinante per marcare i gruppi degni di appartenere alla nazione britannica e i gruppi che non lo sono. Perseverando nella mentalità del XX secolo che vedeva nell’immigrato ideale il conservatore ideale, nel XXI secolo i Conservatori hanno adottato politiche che privilegiavano l’immigrato facoltoso rispetto a quello che porta a casa il salario minimo. Nell’idea dei Conservatori, l’immigrato ideale è un individuo con elevato livello di istruzione che lavora nella City, spende molto denaro nella capitale per poi trasferirsi all’estero dopo aver trascorso i propri cinque anni necessari alla promozione nella sede centrale di Londra. Chiunque non rispecchi questa descrizione è un immigrato “indesiderabile”: insegnanti, infermieri, operai, assistenti ospedalieri, addetti alle pulizie e dipendenti dei servizi. Si tratta di una serie di criteri di selezione che combacia con la visione del tipo di Paese che il Regno Unito dovrebbe essere nell’ottica dei Conservatori; sarà un metro di esclusione diverso, meno esplicito di quello apertamente escludente sostenuto dall’UKIP, ma ciononostante sempre di esclusione si tratta. In nessun momento, i Conservatori favorevoli al Remain (in particolare Cameron e Theresa May) hanno avuto una qualche superiorità morale rispetto a Farage e ai suoi sostenitori. Riguardo alla problematica del controllo sull’immigrazione, la differenza tra il Remain dei Conservatori e il Leave degli estremisti di destra non era sul “se” ma sul “come”.
Mentre il Partito Liberale restò fortemente contrario alle restrizioni sull’immigrazione nel corso del XX secolo, sulla stessa questione il Partito Laburista si è sempre più diviso nel corso della seconda metà del secolo. I membri della direzione del partito sono sempre stati fautori dell’apertura dei confini, mentre gli iscritti tendevano a difendere le restrizioni, soprattutto quelli che vivevano nelle aree industriali dove i lavori manuali specializzati diventavano sempre più scarsi. Dopo il 1965 il Partito Laburista appoggiò frequentemente le restrizioni all’immigrazione, raggiungendo un consenso con i Conservatori. Però, prima degli anni ’80 anche i conservatori erano d’accordo coi laburisti su una serie di altri temi, come la piena occupazione e il totale finanziamento dello stato sociale. Mentre il Partito Laburista continuò a sostenere un certo grado di controlli sull’immigrazione, i Conservatori ridimensionarono il loro appoggio allo stato sociale. Il Labour accettò i controlli sull’immigrazione vedendoli come parte del prezzo di uno stato sociale totalmente finanziato. La differenza principale tra Labour e Partito Conservatore prima che la Thatcher arrivasse al potere era la misura in cui sostenevano la più drastica retorica dell’estrema destra e in cui difendevano le espressioni più esplicite di xenofobia e razzismo, nonché la misura in cui continuavano a vedere lo stato sociale come un investimento. In anni più recenti, Ed Milliband ha fortemente dato il suo supporto alle restrizioni sull’immigrazione. L’attuale leader Jeremy Corbyn ha portato un cambiamento nella leadership propugnando l’apertura dei confini. A seguito del referendum ha affermato che il nuovo approccio del partito sarebbe consistito nel destinare maggiori finanziamenti statali alle aree ad alto tasso di immigrazione.
Attualmente i Conservatori, vittime del loro stesso piano, sono molto divisi. Hanno creato le condizioni che hanno spinto più della metà dell’elettorato a votare perché qualcosa (forse qualsiasi cosa) doveva cambiare, ma ora lottano per capire a che cosa, esattamente, quel cambiamento dovrebbe smoigliare. Comunque sia, anche il Labour sta cadendo vittima di un’atmosfera di crisi. Il cinismo diffuso verso gli uomini e le donne di Westminster non è di certo un fenomeno nuovo, ma durante lo svolgimento del referendum è stato chiaro a tutti che tale cinismo ora operava in un contesto in cui sembrava che agli elettori fosse offerta una libertà di scelta sorprendentemente limitata. O accettare lo status quo, con la campagna per il Remain che cercava di spiegare che restare nell’UE avrebbe risolto i loro problemi, o lasciare del tutto, con la campagna per il Leave che prometteva che la fine dell’appartenenza all’UE sarebbe stata la soluzione ideale per tutti i problemi del Paese.
I membri della sinistra che hanno provato a combattere il sentimento anti-immigrazione enfatizzano il fatto che le critiche all’immigrazione non sono legittime in quanto basate sul razzismo e su un fraintendimento riguardo agli effetti dell’immigrazione sulla società e sull’economia britanniche. Se la sinistra vuole vincere questo dibattito, tuttavia, dovrà vedersela col successo che il fronte anti-immigrazione ha ottenuto collegando le sue illegittime critiche all’immigrazione a quelle legittime sullo stato sociale e la spesa pubblica. Accettando il legame tra immigrazione e problemi sociali ed economici sostenuto dall’estrema destra, i Conservatori hanno fatto apparire quella relazione come ragionevole e politicamente accettabile. Ad oggi il Labour ha effettivamente fatto la stessa identica cosa: ha sviluppato una linea totalmente contraria a xenofobia e razzismo, ma che non contrasta efficacemente le affermazioni della destra secondo cui sono gli immigrati i responsabile dei problemi sociali ed economici e il costante sostegno di alcune ali del partito alle restrizioni sull’immigrazione alimenta questa percezione.
Una strategia per rispondere a tutto questo deve essere duplice: un deciso diniego della supposizione secondo cui l’immigrazione è davvero la causa di dei problemi sociali ed economici, unita a una strategia globale per contrastare l’attuale esistenza del razzismo nel Regno Unito; ma anche una campagna molto serrata e completa sulle cause che sono alla base di quei problemi sociali ed economici, come il sistematico sottofinanziamento deciso dai governi che si sono susseguiti durante vari decenni e un’accurata piattaforma per affrontarlo. Una piattaforma simile potrebbe contenere qualcosa di simile al programma economico anti-austerità di John McDonnell o a ricette alternative, ma deve in ogni caso essere dettagliata e convincente. Se la sinistra non sviluppa un programma così completo, che affronti autenticamente le problematiche sociali ed economiche che sono state collegate così malignamente all’immigrazione, continuerà a dare all’estrema destra la possibilità di affermare che i politici non si curano della gente comune. Questa è un’impresa che non è ancora stata portata a termine dal Labour Party nel dopoguerra; storicamente il modello di lotta alla restrizione dell’immigrazione è, di fatto, il Partito Liberale, che durante tutta la seconda metà del XX secolo è stato l’unico partito ad aderire coerentemente a una politica di principio di apertura dei confini e a resistere ad ogni tentativo di trovare una connessione tra l’immigrazione e le crisi sociali ed economiche. Se la principale tattica retorica adottata dal Partito Liberale durante il suo esilio da terzo partito possa essere adattata a una posizione di governo o di opposizione è un problema reale. Inoltre, il contratto sociale di metà secolo si basava su una solidarietà tra classi: la sinistra deve trovare un modo per riscrivere quel contratto includendovi anche una solidarietà etnica e razziale.
Questo è uno spazio politico che la sinistra può e deve strappare all’estrema destra. L’estrema destra ha gettato delle affermazioni retoriche sulle politiche socialdemocratiche ed ha fatto crollare la riflessione su quelle politiche con la mentalità di esclusione che costituisce la base delle politiche xenofobe sull’immigrazione. Il compito della sinistra è quello di scardinare questa connessione. Se una delle preoccupazioni fondamentali di coloro che hanno votato per il Leave è il collasso del contratto sociale, allora la mossa più forte da parte della sinistra sarebbe un piano globale per ricostruirlo.
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da Rifondazione.it
articolo originale: How the British Far Right Went Mainstream
https://www.dissentmagazine.org/online_articles/brexit-british-far-right-went-mainstream
Traduzione di Angelica Bufano e Maurizio Acerbo