Foggia, la mobilitazione dei lavoratori agricoli della provincia, che continua da oramai un anno per richiedere la regolarizzazione delle migliaia di braccianti irregolari presenti sul territorio
di Checchino Antonini
Nella giornata di ieri 7 settembre si è svolto un incontro tra il Comitato dei Lavoratori delle Campagne, la Rete Campagne in Lotta e il Questore di Foggia, alla presenza dei dirigenti dell’ufficio immigrazione. L’incontro è frutto del processo di mobilitazione dei lavoratori agricoli della provincia di Foggia, che continua da oramai un anno per richiedere la regolarizzazione delle migliaia di braccianti irregolari presenti sul territorio. Il 25 agosto scorso, alla luce del perdurare delle gravi condizioni che denunciamo da anni, un nuovo sciopero dei lavoratori ha bloccato per ore la filiera del pomodoro, rilanciando la lotta. «Il miglioramento generalizzato delle condizioni dei lavoratori passa per la riorganizzazione dell’intera filiera agricola, ma non può non tenere conto del processo di regolarizzazione giuridica», scrivono al termine gli attivisti di Campagne in Lotta. «E’ impossibile oggi lavorare in Italia senza un regolare permesso di soggiorno, o quantomeno è possibile ma senza contratti e con ancora meno tutele, e con una ricattabilità ancor maggiore. Ottenere i documenti per i cosiddetti lavoratori “irregolari” risulta essere un passaggio fondamentale senza il quale diventano inutili anche misure come il DDL contro il caporalato, o il protocollo d’intesa tra Regioni e Ministeri, già ricchi di provvedimenti poco utili ed efficaci nello smontare il meccanismo dello sfruttamento in agricoltura».
Per questo motivo continuano ancora, l’ultimo questa settimana, gli incontri con le istituzioni locali coinvolte da mesi in questo processo. Le vittorie ottenute dal comitato dei lavoratori hanno eliminato il requisito della residenza per rinnovare il permesso di soggiorno (come previsto per legge) e aperto le porte della regolarizzazione a centinaia di persone. Tuttavia, nonostante le promesse della Questura, fino ad oggi i casi presi in esame sono meno di trenta, a fronte di diverse centinaia di persone (almeno 600) in condizione di irregolarità. Durante l’incontro di ieri, il Questore ha ammesso le sue responsabilità per le lentezze burocratiche ed ha garantito che d’ora in avanti si procederà a ritmo più spedito. «Ma è necessario che non si gestisca questo problema come un’emergenza ma come un dato strutturale del mondo del lavoro. Appare quindi sempre più necessario che il ministero dell’Interno faccia una sanatoria per tutti coloro che vivono in campagna, atto politico indispensabile per combattere lo sfruttamento e le forme di dominazione che ogni giorno vediamo manifestarsi sul territorio di Foggia, come di Rosarno, e in tutte le periferie di questo paese».
Le cronache d’estate hanno restituito le condizioni disumane di 19 lavoratori stranieri alloggiati da un caporale in stalle e porcili adibiti a dormitori ed in condizioni igieniche-sanitarie degradanti. Carne umana per le aziende agricole della piana di Sibari. La Gdf ha denunciato il caporale, 29 imprenditori agricoli per intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro ma anche i 19 immigrati.
Il “caporale” intratteneva rapporti con due soggetti in regime di “protezione” già affiliati ad una ‘ndrina locale e con un latitante per altri reati. M.M., fra l’altro, tratteneva i documenti di identità dei lavoratori, custodendoli in armadi metallici dei quali solo lui aveva la chiave. Gli operai, inoltre, erano costretti a lavorare in condizioni prive di sicurezza in quanto sprovvisti di dispositivi di protezione individuale e percepivano una paga inferiore rispetto a quanto previsto. Dall’esame delle transazioni finanziarie è emerso che i guadagni illeciti del caporale, quantificati in circa 250.000 euro e incassati in poco più di un anno, in parte venivano destinati anche alle cosiddette “bacinelle” delle organizzazioni criminali. La rimanente parte dei veniva trasferita in Pakistan, paese di origine del caporale, attraverso servizi di money-transfer e post-pay. Era il 5 agosto scorso.
Il giorno prima, alcune di lavoratori stagionali stranieri, impegnati nelle campagne della provincia di Potenza, ha protestato davanti alla Regione Basilicata per chiedere migliori condizioni di vita. Durante la manifestazione, indetta dall’Usb, alcuni di loro si sono incatenati. La delegazione è stata poi ricevuta dal presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella. I lavoratori sono attualmente accolti nel campo di accoglienza di Venosa della Croce Rossa dopo lo sgombero forzato delle baracche e degli immobili fatiscenti della contrada Boreano, simbolo del caporalato in Basilicata. Chiedono un trasporto con navetta per il trasporto dal centro di accoglienza dell’ex cartiera verso i campi e verso il paese e la possibilità di dimorare in case ed appartamenti anziché restare nel centro. Richieste che valgono soprattutto per quei lavoratori che ormai hanno deciso di vivere nelle contrade dell’Alto Bradano.
Andando a ritroso, ventiquattr’ore prima, presso la Prefettura di Foggia, il Presidente della Puglia, Emiliano, accompagnato dalla dirigente della protezione civile, Lucia Di Lauro e dal dirigente per le Politiche per le Migrazioni, Stefano Fumarulo ha incontrato i sindaci di Lucera, Apricena e San Severo, le organizzazioni sindacali e le associazioni al fine di individuare soluzioni immediatamente operative finalizzate all’alleggerimento del «gran ghetto» situato tra San Severo e Rignano. «Non più “sgombero umanitario” ma “alleggerimento”, secondo il gergo militare adottato dal governatore Emiliano che tradisce una linea di continuità con il paradigma umanitario: sono due facce della stessa medaglia, quella delle operazioni di controllo di confine nel Mediterraneo, quella dei campi profughi in tutte le loro variazioni, e in ultimo quella delle guerre umanitarie stesse. Ovviamente, i lavoratori che da mesi chiedono e propongono soluzioni efficaci, reali e durature vengono esclusi da un processo decisionale da anni avvitato sulle stesse misure di facciata, che favoriscono gli amici degli amici. Nonostante denunce, inchieste, revoche e accuse», commenta il Comitato lavoratori delle campagne.
Esiste una lotta quasi invisibile, sebbene ormai tutti siano a conoscenza che nelle nostre campagne lavori un esercito di schiavi sottopagati, supersfruttati e quasi mai riconosciuti per quello che sono: lavoratori. Troppo spesso le loro storie vengono assorbite da una narrazione, quella sull’accoglienza, che serve a “fare pena” più che ad attivare percorsi di conflitto. Eppure la lotta di classe nelle campagne, nella filiera agroindustriale, esiste e la portano avanti braccianti in carne e ossa come quelli che si riconoscono nelle pratiche del Comitato lavoratori delle campagne, campagneinlotta.org è il loro sito. Attivi da sei anni nelle province di Foggia, Reggio Calabria, Cuneo e Potenzada quando Nardò e Rosarno furono teatro di scioperi anche rabbiosi per il riconoscimento dei propri diritti. Da settembre ad oggi non si contano le assemblee nei vari ghetti, e in molte città italiane, mentre è in corso un braccio di ferro con questure e prefetture per una modifica radicale delle norme sull’immigrazione, quelle che schiacciano la loro condizione operaia su quelle più emergenziali (e rassicuranti) di rifugiato, profugo, richiedente asilo, clandestino.
La piattaforma vede alla prima voce la sanatoria per chi lavora nelle campagne, alcuni lo fanno da quindici anni. Questi lavoratori chiedono la residenza, inavvicinabile con questo quadro legislativo, e portano avanti una battaglia sul salario, anche quello indiretto come il diritto alla casa o al trasporto e all’accesso al servizio sanitario nazionale. Il caporalato, dalle sue forme un po’ meno barbare fino a quelle immediatamente criminali, è solo una conseguenza di questa ghettizzazione, spiegano. Perché non esistono più meccanismi di ingresso per i lavoratori e, nel settore agricolo, gli elenchi di braccianti non sono affidabili: i soli iscritti sicuri sono i caporali, gli “scafisti” di terra visto che non esistono servizi di trasporto pubblico degni di questo nome.
La Regione Puglia, dove l’8,7% degli occupati sta nei campi, è immobile da febbraio nonostante i ripetuti incontri – da primavera fino a luglio. Stiamo parlando di 30mila stagionali solo nel foggiano, nella Capitanata dove l’oro rosso arrivò negli anni 80 per via dello spirito imprenditoriale della camorra cutoliana. Il 60% sono europei, comunitari, bulgari e rumeni soprattutto.
Per tutti ci sarebbe l’obbligo di iscrizione all’Inps mentre basterebbero 51 giornate dichiarate in due anni dal datore di lavoro per consentire l’accesso all’indennità di disoccupazione. Al contrario, moltissimi italiani riescono a dichiarare giornate lavorative mai svolte, oppure risultano in disoccupazione ma lavorano ugualmente nei campi partecipando alla corsa al ribasso dei salari contro gli stranieri.
Quello agricolo è uno dei comparti in cui il lavoro nero è più diffuso al punto che una stima prudente dell’Isfol ammette che almeno un quarto dei lavoratori agricoli è invisibile e non gode di alcun livello di welfare. Stiamo parlando di 327000 addetti secondo l’INPS e di circa 304000 per l’INAIL.
In questo contesto il risultato prodotto dalla Regione Puglia si staglia nella sua nullità: solo otto permessi in sette mesi da parte della questura e un muro istituzionale, Regione e prefettura insieme, per impedire il riconoscimento del soggetto al tavolo, nessuna buona pratica ma solo tavoli estemporanei intrisi della solita retorica sull’accoglienza, con il coinvolgimento delle ambigue forze del volontariato per aggirare i contratti provinciali che sulla carta esistono. Oltre ai temi dell’accesso ai servizi e dell’organizzazione del lavoro, i braccianti hanno posto anche il tema dei direttori dei centri di accoglienza per richiedenti asilo che interrompono arbitrariamente il percorso del riconoscimento per coloro che si allontanano per lavorare.
Il dirigente della Regione Puglia non vuole “bianchi” al tavolo perché pensa che i lavoratori stranieri siano più addomesticabili. Per questo i braccianti, nel foggiano, si stanno organizzando col Si.Cobas, una delle sigle più combattive nel panorama del sindacalismo mentre nel ghetto di Boreano, sgomberato il 28 luglio a Venosa (Potenza), l’interlocutore è l’Usb.
A Rosarno, nel reggino, il quadro è quello di una depressione produttiva determinata dalla nuova Pac, la politica agricola comune dell’Ue, gli accordi di libero scambio (soprattutto col Marocco) e dallo strapotere della grande distribuzione dopo la rivoluzione logistica.