Davvero i robot ci ruberanno il lavoro? A che cosa serve davvero l’automazione? Tutte queste predicazioni hanno in comune di invitare i popoli ad abbandonare qualsiasi progetto di poter in qualche modo essere protagonisti del proprio destino
Un vecchio ritornello
I discorsi profetici su una futura distruzione di posti di lavoro non sono certo nuovi. Abbiamo avuto diritto allo stesso ritornello al momento della “nuova economia” all’inizio del secolo, poi alle predizione della “fine del lavoro” di Jeremy Rifkin [2], lo stesso che qualche tempo dopo celebrerà “il sogno europeo” [ 3], che, come sappiamo, si è trasformato in un vero e proprio incubo.
Se si va ancora più indietro nel tempo, troviamo il famoso rapporto Nora-Minc del 1978 sulla Informatizzazione della società [4] che già annunciava enormi guadagni in termini di produttività che tuttavia non abbiamo mai visto arrivare, come ha magistralmente dimostrato Jean Gadrey [5].
Questo tipo di previsioni è il tema favorito da guru che, periodicamente, ci riservono la stessa minestra. Venti anni dopo le sue predizioni futuristiche, nel 2000, Alain Minc ritornava sulle sue suoi illusioni, sotto forma di una implicita autocritica: ” Che occasione mancata, da questo punto di vista, l’illusione informatica! Chiaramente, né l’apparizione dei computer più potenti, né la massiccia diffusione della micro-informatica hanno realizzato questa missione salvatrice: hanno svolto la loro parte nel processo di modernizzazione dell’apparato produttivo; non hanno cambiato i parametri principali dell’economia (…) Non è stata la panacea sperata”.[6]
Ma Minc non si scoraggia. Con e.économie, questa è la volta buona: “sono convinto che entriamo, questa volta in un autentico ciclo Kondratiev. Esiste tra l’informatica e il multimedia [sic] una differenza fondamentale. Una mutazione tecnologica induce un nuovo ciclo di crescita solo se gioca contemporaneamente su domanda e offerta. Da un lato migliorando l’efficienza dell’apparato produttivo, consentendo aumenti massicci di produttività; dall’altro, a livello del consumatore finale, facendo nascere prodotti radicalmente nuovi, in grado di cambiare le abitudini di consumo”.
La produttività rallenta
Un decennio e una crisi dopo non rimane nulla di queste previsioni. Per ora, il paradosso di Solow continua a reggere: “Vediamo computer dappertutto, tranne che nelle statistiche della produttività” [7]. Il rallentamento della produttività è in effetti oggi un fenomeno oggi praticamente universale e che in realtà gli economisti faticano a comprendere. Il Financial Times [8] si inquieta per questo “rompicapo sconcertante”, mentre Christine Lagarde,come detto, evoca lo spettro di una “nuova mediocrità”. Uno dei grafici che corredano questo articolo illustrano lo spostamento verso il basso della crescita degli aumenti di produttività, un fenomeno quasi universale che non risparmia i paesi cosiddetti emergenti.
Gli esperti: da 1 a 5
Lo studio di riferimento è quello di Frey e Osborne [9] e calcola che il 47% dei posti di lavoro negli Stati Uniti sarebbero minacciati dall’automazione. Altri studi sono semplici riprese delle stesse ipotesi, come quella dello studio Roland Berger, che prevede la distruzione di 3 milioni di posti di lavoro in Francia entro il 2025, [10]
Eppure altre ricerche sono, per contro, nettamente meno allarmiste. Georg Graetz e Guy Michaels [11] non riscontrano “alcun effetto significativo dei robot industriali per l’occupazione nel suo complesso”. Un altro specialista in questi temi, David Autor, si chiede ironicamente “come mai continuano ad esserci così tanti posti di lavoro” [12] e introduce la distinzione fondamentale tra attività e posti di lavoro: “Sebbene alcune attività effettuate nell’ambito di posti di lavoro mediamente qualificati siano soggette all’automazione, molti di questi posti di lavoro continueranno a mobilitare un insieme di attività che coprono l’intero spettro delle qualifiche”.
È sulla base di questa distinzione tra posti di lavoro e attività che un recente studio dell’OCSE [13] è arrivato ad una cifra molto più bassa (di almeno 5 volte) rispetto alle previsioni più allarmiste: “solo il 9% dei posti di lavoro negli Stati Uniti è confrontato con un’alta probabilità di essere automatizzato [ ‘automatibility’] invece del 47% previsto da Frey e Osborne”. Questo risultato è ottenuto sulla base di una critica serrata alla loro metodologia, valida anche per tutti gli altri studi che si basano sullo stesso tipo di approccio.
La “macchinizzazione” del lavoratore
Vale anche la pena descrivere gli ostacoli all’automazione identificati da Frey e Osborne. Una prima categoria comprende i requisiti di abilità e vincoli relativi alla configurazione del posto di lavoro. Poi vi è l’intelligenza creativa, cioè la vivacità intellettuale o le disposizioni di tipo artistico. Ma l’ultima categoria, denominata “intelligenza sociale” è agghiacciante e merita di essere citata in dettaglio. Ecco allora, secondo Frey e Osborne, quali sarebbero gli altri ostacoli alla informatizzazione:
• la perspicacia di tipo sociale, consistente nel capire le reazioni degli altri e le ragioni di tali comportamenti;
• la negoziazione, vale a dire il fatto di cercare di conciliare i diversi punti di vista;
• la persuasione, che permette di riuscire a convincere gli altri a cambiare opinione o comportamenti;
• la preoccupazione per gli altri (colleghi, clienti, pazienti) sotto forma di assistenza personale, assistenza medica o di altro supporto emotivo o di altro genere.
Questa enumerazione permette di comprendere come l’automazione dei processi di produzione venga concepita come una “macchinizzazione dei lavoratori. L’ostacolo da sradicare, sono proprio queste disposizioni – che non rappresentano altro che la dimensione umana – e che costituiscono il colletto di lavoro e permettono la costruzione di relazioni sociali tra produttori e utilizzatori. Fondamentalmente l’ideale, tipico del capitalismo sarebbe di spingere al parossismo la reificazione dei rapporti sociali che trasforma il rapporto tra gli esseri umani in rapporti tra merci.
Aumenti di produttività e durata del lavoro
L’idea assai diffusa che grandi aumenti di produttività siano stati la causa della disoccupazione e che prefigurerebbero la cosiddetta fine del lavoro, è stata fin qui totalmente smentita. Gli aumenti di produttività sono stati molto alti durante il periodo dei “trenta gloriosi”, anni caratterizzati dalla quasi piena occupazione. E l’aumento della disoccupazione è coincisa con la fine di questi aumenti di produttività.
Pur ammettendo che la minaccia della distruzione massiccia di posti di lavoro sia credibile e immaginiamo una società che, con un colpo di bacchetta magica, avesse bisogno solo della metà del tempo di lavoro necessario per garantire lo stesso tenore di vita. Si potrebbe decidere che la metà dei produttori continui a lavorare come prima, e l’altra metà verrebbe “esonerata” dal lavoro e potrebbe beneficiare di un reddito. Ma si potrebbe anche sfruttare la manna tecnologica dimezzamento il tempo di lavoro per tutti.
Lasciamo da parte questa visione futura e vediamo cosa è successo nel XX° secolo: durante questo periodo, la produttività oraria del lavoro si è moltiplicata per 13,6 e la durata del lavoro è diminuita del 44%. In poche parole, possiamo dire che stiamo lavorando la metà rispetto ai nostri bisnonni e se questo non fosse accaduto, la disoccupazione avrebbe raggiunto livelli eccezionali.
Tutto questo non è avvenuto in modo “naturale”: sono state le lotte sociali a garantire questa ridistribuzione dei guadagni di produttività sotto forma di diminuzione del tempo di lavoro inferiore e non solo attraverso gli aumenti salariali. La storia delle lotte sociali è stata punteggiata dalle lotte sul tempo di lavoro.
Persino l’OCSE evoca suggerisce questa possibilità sempre aperta: “anche se la necessità di manodopera è minore in un determinato paese, ciò può comportare una riduzione del numero di ore lavorate e non necessariamente da una diminuzione del numero dei posti di lavoro, come si può constatare in molti paesi europei negli ultimi decenni “. [14]
I limiti dell’automazione capitalista
L’automazione si combina con le più svariate forme di quello che oggi è viene chiamata l’economia digitale, della quale l”uberizzazione” è la manifestazione più mediatizzata. Alcuni vi vedono una possibile spiegazione del paradosso di Solow. Secondo Charles Bean, ex capo economista della Banca d’Inghilterra, questo paradosso risulterebbe in particolare “dal fatto che una quota crescente dei consumi proviene da prodotti digitali gratuiti o finanziato con altri mezzi, come la pubblicità. Sebbene questi beni virtuali gratuiti abbiano un valore per i consumatori, essi sono totalmente esclusi del PIL, in ossequio alle norme statistiche internazionali. Pertanto, le nostre misurazioni sarebbero tali da non prendere in considerazione una quota crescente dell’attività economica “. [15]
Per correggere questa distorsione, Bean propone due metodi: “Potremmo utilizzare i salari medi per stimare il valore del tempo che le persone trascorrono online utilizzando prodotti digitali gratuiti, oppure procedere alla correzione del calcolo della produzione dei servizi di telecomunicazione, per tener conto della rapida crescita del traffico Internet “.
Il nostro professore della London School of Economics commette qui un errore assai rivelatore, confondendo valore d’uso e valore di scambio. Il “valore” che rappresenta per il consumatore l’ascolto di musica online rappresenta un valore d’uso, ma non valore di scambio. È la società a ” costo marginale zero ” teorizza da Rifkin [16], che su questo punto forse non ha torto nel pronosticare “l’eclissi del capitalismo.”
Infatti, la generalizzazione dell’economia digitale non è necessariamente compatibile con la logica capitalista, che è quella di produrre e vendere merci; merci che possono anche essere virtuali e smaterializzate, ma devono concorrere al processo di redditività del capitale. Allo stesso modo la robotizzazione deve non solo essere redditizia, ma poter contare su sbocchi. Se essa dovesse effettivamente condurre ad una distruzione di massa di posti di lavoro, si porrebbe il problema di poter trovare dei compratori per le merci prodotte dai robot.
Sarebbe necessario intensificare la riflessione su queste piste di ricerca, per attualizzare il principio avanzato da Ernest Mandel: “L’automazione generale nella grande industria è impossibile nel capitalismo. Aspettarsi una tale automazione generalizzata fin tanto che i rapporti capitalistici di produzione non siano stati soppressi, è altrettanto errato quanto sperare che i progressi di tale automazione riescano a sopprimere questi rapporti di produzione”. [17]
Rimessi in gioco la struttura e lo statuto degli impieghi
Il nostro punto di vista non contesta l’ampiezza delle trasformazioni indotte dall’economia digitale, ma mette in discussione le valutazioni catastrofistiche del loro impatto sull’occupazione. Tuttavia, tutti gli studi disponibili, anche i più scettici, hanno sottolineato l’impatto di queste mutazioni sulla struttura dei posti di lavoro e il loro statuto.
Prendiamo ad esempio l’esempio di industria 4.0, il progetto sviluppato in Germania per l’automazione intelligente delle fabbriche (Smart factories) attraverso la creazione di “sistemi cyber-fisici” che garantiscono un migliore coordinamento e una maggiore reattività dei robot . Uno studio recente [18] rivela – come altri già menzionati – che le conseguenze sull’occupazione aggregata sarebbero ridotte. Non bisogna quindi cedere alla narrazione di osservatori affascinati da queste mutazioni tecnologiche delle quali si fanno profeti.
È il caso, ad esempio, di Bernard Stiegler che, in una breve intervista che riassume il suo ragionamento, afferma che “oggi ci sono fabbriche senza operai: Mercedes ha creato una fabbrica che impiega solo dei quadri” [19]. Affermazione smentita da un commentatore ben informato(Christian): “Mercedes, una fabbrica senza operai? Sarei curioso di sapere dove? Se si fa riferimento a quella di Hambarch e alla fabbrica Smart , si è fuori strada. Qui abbiamo a che fare con un’impostazione della fabbrica più ridotta: tutto è subappaltato o quasi, attraverso l’assemblaggio dei moduli dai parte dei subappaltatori che naturalmente utilizzano degli operai. Il montaggio di questi moduli è fatto da alcuni operai Smart e tutti i quadri svolgono la loro funzione di interfaccia tra questi diversi interlocutori”.
Per contro questi nuovi processi produttivi inducono significativi trasferimenti di manodopera tra posti di lavoro e settori, orientati verso lavori più qualificati. Da decenni, i cambiamenti tecnologici già svolgono un ruolo essenziale nella “tripolarizzazione” dei posti di lavoro: quelli altamente qualificati, da un lato, e quelli poco qualificati, dall’altro, vedono la loro parte aumentare nell’occupazione complessiva. E sono proprio i posti di lavoro intermedi a vedere la propria quota diminuire. Questo movimento si combina con la mondializzazione e le rilocalizzazioni della manodopera nei cosiddetti paesi emergenti [20] e contribuisce alla crescita delle disuguaglianze trai salariati.
Secondo uno scenario ottimistico, questa evoluzione potrebbe essere rallentata attraverso un innalzamento generale delle qualifiche, garantendo così una ripresa di competitività che non sarebbero più basata su bassi salari. Ma questa prospettiva non è necessariamente tale da garantire la creazione di un numero di posti di lavoro sufficiente e adeguato alla struttura delle qualifiche.
La “collaborazione” contro il sistema salariale
È qui che interviene l’economia digitale e in particolare le piattaforme che forniscono piccoli lavori per i cosiddetti lavoratori ‘indipendenti’. Ricordiamo AirBnB , Uber, BlaBlaCar, Task Rabbit, YoupiJob, Frizbiz o ancora il Mechanical Turk di Amazon. Questa economia di “condivisione”, “collaborativa” o “a richiesta” ha un effetto corrosivo sulle istituzioni del salariato. Come osserva l’OCSE nella sua sintesi già citata [14]: “La durata legale del lavoro, il salario minimo legale, l’assicurazione contro la disoccupazione, le imposte e le prestazioni sono sempre basati sul concetto di un rapporto classico e unico tra il dipendente e il datore di lavoro”.
Con lo sviluppo del lavoro indipendente, aggiunge l’OCSE, “un numero crescente di lavoratori a rischia di essere escluso dalla contrattazione collettiva. Può anche accadere che non abbiano accesso all’indennità di disoccupazione e ai sistemi pensionistici di cui beneficiano i salariati, e che abbiano difficoltà a ottenere un credito. Attualmente, lavoratori indipendenti non hanno diritto alle prestazioni di disoccupazione in 19 dei 34 paesi dell’OCSE e non ha diritto alle prestazioni dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro in 10 paesi”
Ma, ancora una volta, le nuove tecnologie in tutto questo non c’entrano nulla. Non vi è infatti alcuna correlazione tra il peso del lavoro indipendente e la quota di occupazione nei settori ad alta tecnologia. Anzi, sembrerebbe andare nella direzione opposta, come mostra il grafico qui sotto, elaborato da Patrick Artus [21] che suggerisce come “lo sviluppo del lavoro indipendente [potrebbe] semplicemente consentire di aggirare le protezioni garantite al lavoro salariato”.
L’era dei guru
Quali sono allora, in ultima analisi, le possibilità di estensione di questa economia “collaborativa” e degli statuti di lavoro degradati che assai spesso l’accompagnano? Per alcuni, “nessun settore è risparmiato”, come afferma con orgoglio come TheFamily, un “incubatore” di start-up, per il quale l’impiego, la protezione sociale, i trasporti, le pensioni, etc. sarebbero minacciate dai “barbari”. [22]
Questa problematica ha suscitato l’apparizione di profeti e guru differentemente ispirati, che funzionano in reti spesso concorrenti e mostrano una grande abilità nell’ottenere sovvenzioni statali o da parte delle grandi aziende. Dovremo ritornarci più in dettaglio per mostrare fascinazione tecnologica dei grandi iniziati serva a diffondere una nuova ideologia secondo la quale l’occupazione, il salariato, la protezione sociale, la salute pubblica, le pensioni a ripartizione sarebbero oggi tutte cose superate. Secondo costoro sarebbe del tutto vano e reazionario voler “far girare all’indietro la ruota della storia”, piuttosto che creare gli strumenti per adattarsi al movimento impetuoso del progresso tecnologico.
In questo modo viene costruito un discorso multiforme, che esalta la “trasversalità” in opposizione alla “verticalità”, il “nomadismo” contro la sedentarietà”, la “riforma”contro il “conservatorismo”. Intima alla maggioranza degli esseri di adattarsi alle ineluttabili mutazioni, e a rinunciare a qualsiasi forma solidale di organizzazione sociale. Ripete con insistenza l’idea che “il lavoro è finito” e che l’unica compensazione alla quale si possa pretendere di aver diritto è un (piccolo) reddito nell’ambito di una società di apartheid. [23] Tutte queste predicazioni hanno in comune, in ultima analisi, di invitare i popoli ad abbandonare qualsiasi progetto di poter in qualche modo essere protagonisti del proprio destino.
[1] cfr. Michel Husson, « Stagnation séculaire : le capitalisme embourbé ? », A l’encontre, 5 juin 2015.
[2] Jeremy Rifkin, The End of Work, 1995 ; La Fin du travail, La Découverte,? 1996.
[3] Jeremy Rifkin, The European Dream. How Europe’s Vision of the Future Is Quietly Eclipsing the American Dream, 2004 ; traduction française : Le rêve européen : ou comment l’Europe se substitue peu à peu à l’Amérique dans notre imaginaire, 2005.
[4] Simon Nora, Alain Minc, L’informatisation de la société, 1978.
[5] Jean Gadrey, « Le mythe de la robotisation détruisant des emplois par millions », blog Alternatives économiques, 1-2 juin 2015.
[6] Alain Minc, www.capitalisme.fr, 2000.
[7] Robert Solow, « We’d Better Watch Out », New York Times Book Review, 12 July 1987.
[8] « The productivity puzzle that baffles the world’s economies », Financial Times, May 29, 2016.
[9] Carl B. Frey, Michael A. Osborne, « The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation? », September 2013.
[10] Camille Neveux, « Les robots vont-ils tuer la classe moyenne ? », Le Journal du Dimanche, 26 octobre 2014.
[11] Georg Graetz, Guy Michaels, « Robots at Work », CEPR Discussion Paper 10477, March 2015.
[12] David H. Autor, « Why Are There Still So Many Jobs? The History and Future of Workplace », Journal of Economic Perspectives, vol.29, n° 3, 2015.
[13] M. Arntz, T. Gregory, U. Zierahn, « The Risk of Automation for Jobs in OECD Countries », OECD, 2016.
[14] OCDE, « Automatisation et travail indépendant dans une économie numérique », mai 2016.
[15] Charles Bean, « Measuring the Value of Free », Project Syndicate, May 3, 2016.
[16] Jeremy Rifkin, La Nouvelle Société au coût marginal zéro, 2014.
[17] Ernest Mandel, Le troisième âge du capitalisme, Edition de La Passion, Paris 1997, p.453.
[18] M. I. Wolter, A. Mönnig, M. Hummel et al. (2015), « Industrie 4.0 und die Folgen für Arbeitsmarkt und Wirtschaft », IAB Forschungsbericht, No. 8/2015.
[19] Bernard Stiegler, « Je propose la mise en place d’un revenu contributif », LeMonde.fr, 11 mars 2016.
[20] Michel Husson, « La formation d’une classe ouvrière mondiale », note hussonet n° 64, 2013.
[21] Patrick Artus, « Les travailleurs indépendants : évolution normale du marché du travail avec le numérique ou contournement de la protection de l’emploi salarié ? », 7 juin 2016.
[22] TheFamily, « Les barbares attaquent ».
[23] Benjamin Dessus, « Revenu universel : le risque d’apartheid », AlterEcoPlus, 27 mai 2016.
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