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Ladro di ferragosto

Riletture di mezza estate: Ladro di ferragosto, uno scrittore alle prese con due anomali Adamo ed Eva

di Raffaele Crovi

Francis bacon - Figure in a room

Adamo ha trentacinque anni. Fisicamente è anche più giovane. Ma ha la malizia e la pazienza di un adulto. Perde tempo a cercare la mia identità come una chiromante o uno psicanalista. Non accetta le mie contraddizioni. Io vivo di contraddizioni. Adamo non riuscirà a vincere la mia insicurezza. Forse sono più forte di lui. Gioca con me, da alcune ore, al gatto e al topo. Non è detto che io non sia il suo serpente. Ha commesso una violazione di domicilio. Forse avverte, a intermittenza, la tentazione di farmi violenza, di liberarsi di me. Io mi propongo di renderlo inoffensivo. Lo osservo, lo giudico, potrei farne il personaggio di un libro, il protagonista dei miei desideri. Potremmo anche convivere: potrei imprigionare la sua gioventù nella mia vecchiaia. Comincio a capire: ho accettato come ospite un ladro per imparare a rubare. È questo il profitto di cui ho subito fatto il calcolo ieri sera, rientrando in casa, alla fine della mia ronda.

Non c’era traccia di scasso. Adamo ha detto che lui apre le porte, come nelle favole, per mezzo di abracadabra. Rientrando, l’ho trovato che stava staccando dalla parte un quadro. Sono rimasto senza fiato.
Lui ha sfoggiato la sua faccia tosta, dicendo: «Tante scuse. Credevo che lei fosse in montagna o al mare. Tolgo l’incomodo».
È sgusciato svelto sul pianerottolo; ma, visto che non gridavo, che non invocavo soccorso, che non davo segni d’isteria, non ha infilato le scale; ha premuto l’indice della mano destra sulla bottoniera dell’ascensore e mi ha fatto un inchino. Ero confuso, non mi sono precipitato a chiudere la porta, l’ho solo accostata.
Allora lui è tornato sui suoi passi, si è fatto avanti, si è presentato: «Mi chiamo Adamo. Ha bisogno di compagnia?» È andato a sedersi nella poltrona dello studio, commentando: «È un posto da Dio. Magari Dio è proprio lei. Sembra sicuro di sé. Non ha chiamato aiuto. E io ho capito: la città è deserta, il mondo è deserto, e Dio ha bisogno di Adamo».
Aveva un’aria insinuante, ma quasi non l’ascoltavo: ero tutto preso dallo sforzo di non esplodere in balbettii o di non liquefarmi in sudore. «Non ho complici», aveva aggiunto. Sono un ladro disorganizzato.» Si mostrava arrendevole, per provocare curiosità: «Adesso ho fame. O mi invita lei a cena o invito io lei.
«I ristoranti sono chiusi.»
«Non ho già dimostrato di saper usare il passepartout?»
«Se è venuto a cercare cibo, s’accomodi. Il frigorifero è pieno.»
Dopo averlo aperto, aveva espresso ammirazione: «Stipato e fragrante. Lei è un uomo saggio. O, magari, goloso?»
«Può mangiare anche per me. Io non ho appetito.»
L’avevo lasciato in cucina, libero di consumare, libero di rubare, libero di distruggere. Mi ero rintanato nello studio: avevo impugnato il telefono per chiamare la polizia; ma, non sentendo rumori, se non quello dello sfrigolio dell’olio fritto, tentato dall’odore di cibo cotto che si insinuava nella stanza, avevo deciso, abbandonato il progetto di denunciarlo, di lasciare che giocasse, dopo aver giocato al ladro, al cuoco.

L’appuntamento predisposto da Adamo deve aver luogo dentro un cinema: sesta fila a destra, quinta poltrona da destra a sinistra. Arrivo a destinazione senza intralci. Prevedo di prendere posto senza difficoltà: la sala è quasi vuota. Proibito fumare: aleggia un leggero odore di lisoformio. Sono preceduto a salti da un ragazzo che si sposta a salti da una fila all’altra, dal settore di destra a quello di sinistra e viceversa: mentre sullo schermo due cowboys cavalcano in un deserto, il ragazzo interpreta il suo film tra tre risate e una protesta. Devo evitare, penso, che occupi la poltrona a me designata; ma il ragazzo mi precede anche in questo: esce di scena, seguendo un venditore di gelati, prima che io arrivi a destinazione. Mi sistemo. Scivolo con le ginocchia fino a toccare la poltrona che ho davanti. Guardo il film dal basso in alto a occhi socchiusi. E così non mi accorgo della ragazza che mi si affianca, finché non mi bacia una tempia.
Sposto la mia faccia verso di lei. La ragazza si mostra appena sorpresa. «Sono Eva», si presenta, baciandomi sotto l’orecchio. Poi allunga una mano sul ginocchio che mi sono scorticato stamattina. Sembra avere notizie precise sul mio corpo, perché accarezza il ginocchio con la cautela della fisioterapista. Sposta la mano sulla coscia sinistra e la muove fino all’inguine. Risale lungo la cerniera dei pantaloni fino all’allacciamento dello zip e lo apre. Mi scosto con gentilezza, richiudo lo zip e le stringo affettuosamente la mano.
«Dovevamo incontrarci per vedere un film o per qualcos’altro?» domando.
«Decida lei anche per me», risponde.
Come Adamo mmi ha trasmesso la voglia di vivere senza liberarmi dalla paura di farlo, Eva risveglia subito in me il desiderio del piacere, prima di trasmettermi il bisogno di amare. Ho un soprassalto di dignità. «Mi saluti Adamo», la prego con dolcezza, mentre lascio la nicchia della poltrona. Abbandono rapidamente la sala, ma fuori mi accorgo che la donna mi ha seguito agile e paziente. Penso: eggià, visto che Eva è la costola di Adamo, non sarà facile togliermela dalle costole.

Per non seguirmi fino a casa, Eva scompare nel buio. Mi chiedo cosa succederà ancora: comincio a contare sugl’imprevisti che forse sono miracoli. Amputato della mia sicurezza, svestito della mia vanità, scrostato del mio narcisismo, vado incontro all’alternativa del vivere e non vivere con sensitiva carnalità. Per addestrarmi a vivere non ho più che il mio corpo. Che cosa posso fare del mio corpo? Lo spoglio, lo ripulisco, lo rinfresco con sali e unguenti, lo osservo nudo e indifeso nella luce argentea di uno specchio: provo commiserazione per lo spreco (da omissione d’uso) che ne ho fatto finora. Lo preparo alla festa. Mi assesto, col corpo ritrovato e ritemprato, davanti alla macchina da scrivere e mi affretto ad abbozzare il corsivo che dovrò dettare a uno stenografo. Sono le 8.30: mi rimane un’ora per compitare i pensieri che un computer trasformerà in una colonna di ideogrammi.
Il televisore è spento, è muto: io non mi sento mutilato. Mi sento respirare: sento la casa respirare. Nella casa, nel ondo, si espande una leggerissima polvere di suoni pronta a condensarsi in voci: il computer della vita compone minimi fuochi fatui. Corpi minerali calamitano corpi animali. Il mio silenzio e il silenzio dello spazio si fondono: il mio fiato sposa il fiato della stanza. C’è un contatto mentale tra spazio e tempo, una fusione d’identità. Se tocco il mio corpo ho la sensazione di contattare la realtà. Se sfioro un oggetto vibro come per l’intervento di una presenza umana. L’identità corporale, la conoscenza animale si trasformano in coscienza. Il dialogo col buio diventa dialogo con la memoria. Vivo, dunque posso scrivere.
La mano destra si avvicina alla tastiera. Poi, all’improvviso, se ne discosta: per un crampo perché mossa da Adamo? Non è detto che Adamo – la spia della mia incertezza, il giudice della mia doppiezza – non mi stia alle spalle anche ora: Adamo, ladro di ferragosto, intruso nel guardino di un signore della solitudine. Comincio a battere sui tasti, mi avventuro a trascrivere il primo titolo che mi si compone in testa. Ferragosto: il limbo della solitudine.
La mia solitudine, penso, è discrezione. La mia solitudine, constato, è egoismo. La solitudine, pensavo, è un’avventura stoica. La solitudine, dico, è una presunzione di santità. Chi sceglie la solitudine non soffre di solitudine: è uno che si prepara a godere il privilegio dell’isolamento. C’è solitudine vera nella povertà, nella malattia, nella vecchiaia: la solitudine vera non è egoismo, è dolore. La solitudine come ascesi della mortificazione? No, no: la solitudine come atroce espiazione; se non è omicidio è suicidio.
Perché non mi sono suicidato? Mi manca la scena? Non provocherei orrore in nessuno. Se mi impiccassi? Se m’imbottissi di barbiturici? Se mi lasciassi affondare nella vasca da bagno? Sarebbe un finale, più che da thriller, da feuilleton. Meglio provare col veleno? Dicono che sia meno dolce che svenarsi; usando il veleno si può, però, misurare e controllare la progressiva perdita della propria capacità di respiro. Ma non ho già sperimentato per anni il drogante piacere dell’asfissia? Non è detto che non sia piacere anche la vertigine di respirare aria a pieni polmoni, di scambiare sospiri e respiri con gli altri.
Strappo il foglio su cui ho tentato di descrivere la solitudine ferragostana, a Milano, di uomini e cani, di ciechi e preti, di ladri e innamorati. Su un secondo foglio bianco inscrivo il vecchio titolo. Ferragosto: l’inferno della sopravvivenza.

ESTRATTO DA RAFFAELE CROVI, LADRO DI FERRAGOSTO, FRASSINELLI, 1984

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